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Brasile. La battaglia della favela di Paraisópolis: «Da soli teniamo a bada il Covid»

Lucia Capuzzi mercoledì 18 novembre 2020

Formazione dei volontari anti-Covid nella favela di Paraisópolis

«Me lo ricordo bene». Il 26 febbraio è arrivata la notizia del primo caso di Covid in Brasile, proprio qui a San Paolo. Ci siamo guardati in faccia e ci siamo chiesti: «E ora come facciamo?». Sapevamo che lo Stato non ci avrebbe aiutato. Dovevamo cavarcela da soli, come sempre. Lo facciamo da 99 anni». Era il 1921 quando migliaia e migliaia di brasiliani, in fuga dalla miseria del Nord-Est, raggiunsero la città, centro emergente delle futura industria nazionale, e cominciarono ad accamparsi in un'ampia porzione del quartiere di Vila Andrade. Mese dopo mese, i nuovi arrivati iniziarono a costruire casette di legno, latrine, viottoli sterrati mentre il resto della società e le autorità politiche si voltavano dall'altra parte. «Da quel primo nucleo è nata Paraisópolis, nel sud di San Paolo, proprio accanto alla zona residenziale. Ora è quasi una città nella città di 100mila abitanti. Una cosa, però, non è cambiata: il disinteresse del potere pubblico», racconta ad Avvenire Igor Alexsander Amorim, esponente dell'União dos Moradores e do Comércio (Unione dei residenti e commercianti). A 26 anni, inoltre, Igor è stato scelto per guidare G-10 favelas, una sorta di G-7 delle periferie, che, dal 2018, cerca di coordinare progetti comuni in una trentina delle principali baraccopoli brasiliane. Capofila proprio Paraisópolis. «Le favelas non sono solo oggetto di aiuto. Possono essere protagoniste della loro trasformazione. Questa è l'idea del G-10 e questa è stata anche la chiave per affrontare la pandemia». Il 19 marzo, l'União ha lanciato il piano fai da te per gestire l'emergenza. «Per prima cosa, abbiamo formato i presidentes das ruas. Volontari, incaricati di vigilare sulla salute di 50 famiglie della propria strada attraverso azioni semplici: misurare la temperatura e soprattutto sensibilizzare le persone sulle regole di igiene fondamentali. Degli attuali 658, l'83 per cento sono donne», dice con un certo orgoglio ad Avvenire Gilson Rodrigues, da dieci anni presidente dell'Unione, una sorta di sindaco di fatto di Paraisópolis. «C'era, però, un problema. Che cosa potevano fare i volontari se qualcuno mostrava i sintomi? Le ambulanze non entrano nella favela». L'União si è lanciata in una raffica di raccolte fondi virtuali e progetti di crowfunding. Il successo è stato immediato: ad aderire sono state soprattutto milioni di persone comuni ma anche imprese. Alla fine, l'associazione ha racimolato quattro milioni di reais (circa 500mila euro), il cui bilancio viene diffuso e aggiornato in tempo reale sui social. Con il denaro, Gilson e compagni hanno reclutato otto operatori sanitari e affittato tre ambulanze operative h24, che hanno trasportato finora 10mila malati. Altra questione scottante quella della quarantena per i casi sospetti. Impossibile isolarli nelle casupole addossate l'una sull'altra. «Abbiamo, così, trasformato due scuole in rifugi di emergenza, dove abbiamo ospitato circa metà dei contagiati», prosegue il "sindaco". In aggiunta, 68 donne, rimaste disoccupate per la crisi, sono state incaricate di auto produrre quasi 300mila mascherine per la comunità. Le misure "auto-adottate" finora sono riuscite a contenere la catastrofe. Duecentotrenta giorni dopo il lancio del piano fai da te, Paraisópolis ha avuto meno di cento vittime. L'ultima rilevazione, alla fine di settembre, ne ha contate 56, per un totale di 1.158 contagiati. Nel resto della città – epicentro della malattia – si registrano oltre 317mila casi e più di 13.500 vittime. La maggior parte dei colpiti, secondo uno studio del municipio, si concentra nelle zone con minori risorse. Dato affatto sorprendente in una città dove, già prima della pandemia, c'era una differenza di 14 anni tra la speranza di vita degli abitanti del quartiere più ricco e di quello più povero. La mappa dei contagi spesso coincide con quella delle favelas, come Grajaú, Jardim Ângela e Brasilândia, con un tasso di infezione quadruplo rispetto al resto della megalopoli. «Si tratta di comunità con scarsa organizzazione interna. Abbandonate dalle istituzioni, si trovano indifese di fronte al Covid. Anche per noi, la grande sfida è stata mobilitare gli abitanti. Per fortuna ce l'abbiamo fatta». Paraisópolis, ormai, è un modello: decine di comunità di 14 differenti Stati la stanno imitando. Negli ultimi mesi, però, a dispetto della frenata, seppur debole, nazionale, i casi nella favela stanno aumentando. I soldi raccolti iniziano a esaurirsi e la crisi prolungata sta riducendo le donazioni. Proprio ora che gli abitanti devono fare i conti con il congelamento dell'economia informale, da cui dipendono quasi tutti. L'União ha lanciato l'iniziativa "adotta un lavoratore a giornata": pensato per assistere 500 domestiche ad ore rimaste ferme, il programma ne ha aiutato oltre il doppio. Dato che l'emergenza Covid in Brasile più che finire sembra cronicizzarsi, nel lungo periodo, occorre un sostegno da parte delle autorità. «A queste ultime chiediamo di pensare e realizzare politiche pubbliche che includano le favelas. Anche noi siamo brasiliani.