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La denuncia. Paraguay, esercito di bimbi: «Abusi in caserma»

Lucia Capuzzi lunedì 10 marzo 2014
Gerardo Vargas Areco ha 15 anni quando è reclutato dalle Forze armate. È il 26 gennaio 1989. Quasi un anno dopo, il 30 dicembre, un proiettile gli trafigge le spalle. Muore sul colpo. A sparare, il sottufficiale Aníbal López Infrán. Gerardo cercava di fuggire dalla caserma, il tiro avrebbe dovuto spaventarlo, non ucciderlo, ha dichiarato López Infrán. Sul corpo della vittima, però, ci sono varie lesioni, bruciature, il viso è sfregiato. Qualcosa non torna. Non è un episodio del celebre romanzo “La città e i cani”, in cui il Nobel Mario Vargas Llosa racconta gli abusi e le violenze perpetrati in un collegio militare di Lima, a metà del Novecento. È la realtà attuale del Paraguay rurale. Dove i bambini sono arruolati illegalmente dall’esercito e, spesso, non lasciano mai più la caserma. Lo dimostra il rapporto appena diffuso dal Servizio pace e giustizia Serpaj, organismo di ispirazione cristiana per la difesa dei diritti umani diffuso in gran parte dell’America Latina. Che ha cominciato ad indagare proprio a partire dal “caso Vargas Areco”. Per scoprire che si tratta solo uno dei tanti. Tra il 1989 e il 2012, nelle caserme paraguayane sono morti «misteriosamente» 147 minori. I più piccoli avevano 12 anni. In media, uno ogni due mesi. Questi, però, sono solo le vittime che hanno fatto in qualche modo rumore sulla stampa locale, perché la loro vicenda è stata particolarmente inquietante. Come quella di Darío Vera Portillo, 17 anni nel 1994, quando era nel Reggimento di Infanteria n°1. Dopo una punizione, la gamba sinistra si è infettata ed è andata in cancrena: si è spento dopo mesi di sofferenze. O di Cándido Ramírez, 18 anni appena compiuti ma con oltre due di servizio militare alle spalle. Sarebbe inciampato e il machete che portava alla cintura l’avrebbe trafitto, secondo il colonnello Eduardo Ramón Sosa. La stessa sorte è toccata poco dopo al coetaneo Feliciano Vera. Poi ci sono i ragazzini morti in combattimento. O di freddo. Intossicati dalle stufe a gas o assassinati dalla loro stessa arma che non riescono a utilizzare.Le storie raccolte sono eloquenti quanto poche. Il resto del dramma rimane “sommerso”. «Il nostro rapporto non vuole essere un elenco unico e definitivo – spiegano da Serpaj –, vuole solo dare qualche contenuto in più su ognuno di questi episodi». Gli archivi militari sono inaccessibili e anche se venissero divulgati dei “baby soldati” non ci sarebbe traccia. Poiché ufficialmente non vengono censiti. La ragione è chiara: l’articolo 129 della Costituzione fissa tassativamente a 18 anni l’età della leva, peraltro obbligatoria. Prima non se ne parla. O meglio non se ne scrive nei documenti formali. Eppure la pratica dell’arruolamento coatto di bambini, dai dieci-dodici anni in avanti è costante nelle campagne: le aree più emarginate di un Paese già allo stremo. I militari vanno di villaggio in villaggio e propongono alle famiglie contadine di affidare loro i figli per addestrarli o per compiti di bassa manovalanza. «Ne faremo uomini», affermano e, soprattutto, «avranno vitto e alloggio». Anche le bambine vengono ingaggiate come domestiche in cambio di un piatto di riso, una forma di sfruttamento definita “schiavitù” dall’Organizzazione mondiale del lavoro. Chi arruola un minore, rischia la sospensione dalle Forze armate per cinque anni: finora però la normativa non è stata mai applicata. L’impunità consente al fenomeno di ampliarsi. Alcune fonti, ascoltate da un gruppo di ispettori della Commissione Interamenricana nel 2001, avevano testimoniato che oltre metà dei soldati di leva erano minorenni. Tredici anni dopo – denunciano fonti locali attendibili – non sembra essere cambiato molto. Anzi. Un esempio: solo sei dei 147 casi raccolti dal Sepaj si sono conclusi con una condanna. Tra questi, quello di Gerardo. Altri 141 bimbi non hanno avuto ancora giustizia.