LIBERTA' RELIGIOSA. Pakistan, per Rimsha in campo il presidente. E i cristiani fuggono
A chiedere chiarezza e a sostenere il diritto alla difesa di Rimsha Masih – il nome è di fantasia –, la tredicenne accusata di blasfemia in Pakistan e che per questo rischia una pesante condanna, è stato ieri il presidente Asif Ali Zardari. Quest’ultimo ha ordinato al ministro dell’Interno Rehman Malik di consegnargli immediatamente un rapporto sull’accaduto. «Non permetteremo in alcun modo – ha commentato il capo dello Stato – un uso strumentale della legge sulla blasfemia». E ha aggiunto: «Vogliamo proteggere la vita e la proprietà privata dei cristiani» e «essere sicuri che la storia non venga usata da chiunque per interessi personali». È una posizione ben più netta rispetto a quelle assunte dal leader in altre simili e tragiche occasioni. Di certo, sull’orientamento del presidente hanno pesato le pressioni dell’opinione pubblica internazionale che da tempo chiede di modificare la legge sulla blasfemia. Norma che consente, nel nome della tutela della fede islamica, violenze ed arbitri contro le minoranze religiose.Rimsha si trova dal 17 agosto in regime di custodia in un riformatorio sotto la protezione della polizia, dove resterà per le due settimane concesse dalla legge. Centinaia di famiglie cristiane del suo quartiere di Umara Jaffar, sobborgo di Islamabad – almeno 600 persone – sono in fuga, nel timore di ritorsioni dei fanatici religiosi. «Non siamo tanto preoccupati per la sorte della ragazzina, perché abbiamo fiducia negli investigatori e nella magistratura – dice il consigliere per l’Armonia nazionale del primo ministro pachistano, Paul Bhatti che ha convinto musulmani e cristiani a formare un comitato per verificare responsabilità e mantenere l’ordine a Umara Jaffar –, siamo però preoccupati per la sorte delle famiglie costrette a lasciare le loro case. Per tutelarle sono intervenute le forze dell’ordine, ma è difficile ora prevedere un rientro a breve termine».Si temono colpi di mano dei fanatici che già assediano l’intera comunità, una baraccopoli illegale. L’opinione pubblica, intanto, attende con ansia gli sviluppi della vicenda. «Sono in pochi a volere che una persona venga accusata ingiustamente – ricorda Bhatti –, a maggior ragione nel caso di Rimsha. Anche mass media e società civile chiedono chiarezza e la fine del fanatismo. Un sentimento, questo, che ha radici nella propaganda e nell’ignoranza, ma non facile da controllare, sempre a rischio di estendersi».Questa volta forze dell’ordine e autorità hanno reagito con prontezza e con decisione, anche davanti alla reazione prevedibile e forte della comunità internazionale. La polizia ha protetto la ragazzina dai facinorosi che volevano linciarla e l’ha portata al sicuro, per poi pattugliare le strade del quartiere cristiano per evitare violenze e devastazioni. «Stiamo aspettando riscontri degli investigatori, cercando di mediare tra fonti e dati – ricorda Paul Bhatti –. Intanto abbiamo chiesto un esame medico per accertare le condizioni di Rimisha e abbiamo avuto garanzie per la sua sicurezza. Occorre anche non lasciare spazio a notizie senza riscontro o interpretazioni che rischiano solo di accendere l’odio tra le comunità, non di fare giustizia». Un appello alla responsabilità a cui si è unito monsignor Rufin Anthony, vescovo di Islamabad-Rawalpindi.Come in simili fatti, che vanno moltiplicandosi nel Paese, il caso di Rimsha è complessa da definire. Alcuni vicini accusano la ragazzina, affetta da ritardo mentale, di aver bruciato dieci pagine del Noorani Qaida, il manuale per imparare a leggere il Corano, in una discarica dove abitualmente portava i rifiuti della famiglia. La denuncia è bastata a infiammare una folla di facinorosi, che agiscono per interesse personale o per fanatismo.Vari esponenti della comunità cristiana locale, hanno spiegato che la ragazzina avrebbe incendiato spazzatura in uno spazio comune non sapendo che dentro i sacchi ci fossero estratti del Corano. È stato qualcun altro – spiegano – portarle nella discarica, volontariamente o inavvertitamente.