Se mai un gesto così aberrante può avere una motivazione,
sono stati gli stessi taleban pachistani a fornirla. I miliziani del
Tehrek-e-taliban Pakistan (TTP) hanno rivendicato l'attacco alla scuola
militare di Peshawar sostenendo che si tratta di "una vendetta per tutti i
nostri militanti che vengono uccisi in falsi scontri a fuoco con le forze di
sicurezza".
Il portavoce del TTP,
Muhammad Khurassani, ha aggiunto che "per questo abbiamo mandato nella
scuola sei kamikaze". E ha concluso: "Così i militari ora proveranno il
nostro stesso dolore". Un centinaio di vittime innocenti, uccise a sangue
freddo come "vendetta". Così come qualche giorno fa avevano reiterato le
loro minacce a Malala a poche ore dalla consegna alla studentessa pachistana del
Nobel per la Pace. Può esserci una motivazione di fondo che giustifichi tale
efferatezza, tale facile vigliaccheria a colpire un luogo di istruzione? La
risposa è superflua, come inutile è usare la logica per cercare una motivazione
in un gesto che si commenta da solo. Il Ttp non ha formalmente legami con i
taleban afghani. O meglio, operano a cavallo della zona tribale di confine con
l’Afghanistan dove si concentrano le operazione di contrasto al
fondamentalismo, da parte delle autorità di Islamabad (spesso accusate dall’Occidente
di connivenza con i miliziani) e degli stessi Stati Uniti che delegano spesso
ai droni le operazioni di sorveglianza e repressione. Con tutti i “danni
collaterali” che esso comporta. Una zona d’ombra, teatro di attacchi e
ritorsioni. Un buco nero in cui spesso il diritto è dettato spesso dalla forza
e non dalle norme internazionali. Può bastare a cercare una ragione in quanto è
successo? Colpire un innocente va al di là di ogni giustificazione, di ogni
logica. E non è la risposta a un’offesa, neanche nella più assurda delle
logiche di conflitto. È solo un atto squalificante, qualsiasi sia la”
motivazione” che lo può aver generato.