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IL DRAMMA DELLE ALLUVIONI. Pakistan, contadini in ginocchio Bimbi in «pegno» ai latifondisti

Lucia Capuzzi domenica 12 settembre 2010
La pioggia è finita. L’inondazione, invece, continua. Lenta, costante, progressiva, l’acqua fuoriuscita dall’Indo, prosegue la sua marcia per le terre meridionali del Pakistan. Dove un sole inclemente ha preso il posto delle nuvole. La temperatura non scende mai sotto i 40 gradi: nelle tende, gli sfollati boccheggiano. Il caldo umido, però, non basta a seccare i terreni allagati. Ci vorranno circa due mesi per drenarli.Nel Sindh, in particolare, l’80 per cento del territorio è inondato. Impossibile seminare. I contadini – che sono il 90 per cento della popolazione – avrebbero dovuto piantare le sementi entro la fine del mese per avere il raccolto a primavera. L’unica ricchezza con cui gli agricoltori possono pagare l’affitto della parcella su cui lavorano. In questa parte di Pakistan, a possedere la maggior parte dei campi – infinite estensioni di terra – sono i latifondisti. Che la danno in “gestione” ai coltivatori. «Una sorta di mezzadria. Una metà della produzione viene usata per pagare il canone di locazione – spiega ad Avvenire Massimiliano Cosci, logista del Programma alimentare mondiale (Pam), al momento in missione a Hyderabad, seconda città del Sindh. – Il resto rimane agli agricoltori». Le inondazioni rischiano di far saltare il sistema. I contadini si trovano, stavolta, senza risorse per pagare la terra. Sono, dunque, costretti a offrire in pegno ai proprietari terrieri l’unica cosa che hanno: i loro figli. «I bambini, spesso, vengono dati come garanzia ai latifondisti. Che li impiegano come domestici – aggiunge Cosci. – Impossibile saperne la cifra. Varie persone con cui ho parlato mi hanno riferito episodi del genere». Il lavoro minorile è drammaticamente diffuso in Pakistan. Le stime parlano di almeno 10 milioni di bimbi lavoratori, il 20 per cento della popolazione attiva. Piccoli schiavi impiegati nelle fabbriche di palloni o nella produzione agricola. O, ancora, usati come servi nelle case dei ricchi. Le alluvioni e il contesto di generale disperazione gettano una luce ancor più sinistra su questa pratica.La tragedia si accanisce con particolare brutalità sui poveri. Giorni fa, Fides aveva denunciato “l’allagamento guidato” di villaggi abitati da poveri agricoltori – spesso appartenenti alle minoranze religiose cristiane o indù – per salvare i terreni dei ricchi. Non solo. Poveri ed esponenti delle minoranze subiscono, spesso, discriminazioni nei campi profughi. Varie Ong locali hanno denunciato l’esclusione di cristiani e indù da alcune strutture. O il fatto che a questi ultimi venga fornita un’assistenza minore. «Non ci sono grandi agglomerati ma una serie di campi, uno a fianco all’altro – sottolinea Cosci. – Gli sfollati si distribuiscono a seconda del gruppo sociale di appartenenza. A un osservatore esterno, sembrano un’uguale massa di disperati ma la stratificazione interna è molto marcata». E viene ribadita durante la distribuzione degli aiuti. I funzionari incaricati, molte volte, tendono a fare preferenze in favore dei profughi “benestanti”. «Non è colpa del governo o delle agenzie internazionali. Dipende dal singolo incaricato», ribadisce il logista. Discriminazioni e abusi si sommano alle difficoltà logistiche a cui si trovano di fronte le organizzazioni umanitarie. L’acqua si muove e con essa, o per meglio dire lontano da essa, si spostano anche gli sfollati. Passando da un luogo all’altro. E costruendo, ogni volta, ammassi spontanei. Senza strutture igieniche e acqua. Il rischio di epidemie è alto. Soprattutto per i bambini – ben 9 milioni sono stati toccati dalla tragedia – e le donne. Queste ultime, anche quando vi sono docce comuni, non possono usarle per tradizione. «Tanti sono fuggiti coi vestiti che avevano addosso. Non hanno preso niente. Hanno necessità soprattutto di contenitori per l’acqua, non sanno come raccoglierla», conclude Cosci. Per il momento, appena il 20 per cento dei 21 milioni di colpiti è stato raggiunto dagli aiuti. In questo contesto, la festa per la conclusione del Ramadan non poteva non essere “sotto tono”. «Le famiglie usano riunirsi ma stavolta non hanno potuto. C’è molta tristezza nei villaggi per gli assenti», raccontano gli operatori delle Ong che operano a Quetta nell’ambito di Agire. «Non possiamo essere gioiosi quando milioni di persone sono senza tetto», ha detto il presidente Zardari.