Il presidente-padrone del Sudan, generale Omar Hassan el-Bashir, è una delle figure più enigmatiche e controverse della politica africana. Dalla professione militare ha certamente ereditato un pragmatismo decisionale e un senso spiccato per la strategia, mentre dalla formazione politica, ispirata al jihaddismo più oltranzista (arrivò anche ad ospitare Ossama Benladen negli Anni ’90), ha declinato un senso smisurato del cinismo. Salito al potere con un golpe nel 1989, rovesciando il premier democraticamente eletto, Sadiq alMahdi, col sostegno di un’oligarchia locale di chiara matrice fondamentalista, Bashir mise immediatamente al bando ogni partito politico, censurò la stampa e sciolse il Parlamento. Più tardi si arrogò il ruolo di presidente del Consiglio di comando rivoluzionario per la salvezza nazionale (un organo creato “ad hoc” con poteri sia legislativi che esecutivi) e si auto-nominò capo di Stato, primo ministro, capo di stato maggiore e ministro della Difesa, insignendosi inoltre del grado di maresciallo di campo. In tutti questi anni è sempre riuscito a fare il bello e il cattivo tempo, facendosi fautore di un progetto repressivo nei confronti delle minoranze religiose presenti in Sudan (cristiani in primis) e delle popolazioni nilotiche disseminate nelle regioni meridionali. Sebbene gli Usa lo abbiano ripetutamente osteggiato considerandolo a capo di un regime «canaglia», nel 1998 promulgò una nuova Costituzione, mentre l’anno successivo diede il suo assenso ad una legge, emanata da un Parlamento «fatto a sua immagine», consentendo la creazione di associazioni politiche minoritarie che hanno comunque sempre fallito nel tentativo di contrastarlo. Nel gennaio del 2005, con l’accordo di pace di Nairobi, pose termine alla guerra civile con i ribelli dello Spla (Esercito di Liberazione Popolare del Sudan) consentendo alle regioni meridionali del Paese un’autonomia della durata di 6 anni, alla fine della quale la popolazione locale dovrebbe potersi esprimere sulla propria indipendenza da Khartum. Nel frattempo, l’amicizia incondizionata del governo di Pechino gli ha consentito di avere il pieno controllo del business del petrolio e di portare avanti una campagna repressiva contro i ribelli del Darfur.I crimini perpetrati dalle famigerate milizie dei janjaweed, al soldo di Bashir, hanno perpetrato crimini indicibili nei confronti della stremata popolazione civile darfuriana, costretta in parte a fuggire nel vicino Ciad. L’abilità di Bashir è sempre stata quella di riuscire a destreggiarsi contemporaneamente sia sul piano internazionale, grazie soprattutto al sostegno cinese in sede Onu, che a livello interno, attraverso una politica repressiva contro ogni forma di dissidenza. È in questo contesto che si colloca la sua decisione di arrestare nel gennaio scorso il leader del partito popolare islamico sudanese, Hassan al Tourabi, considerato il vero ideologo ed eminenza grigia del regime islamico sudanese.