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Il personaggio. «Padrone » dopo il golpe e promotore del jihadismo

Giulio Albanese giovedì 5 marzo 2009
Il presidente-padrone del Sudan, generale Omar Has­san el-Bashir, è una delle figure più enigmatiche e controverse della politica africana. Dalla professio­ne militare ha certamente ereditato un pragmatismo decisionale e un senso spiccato per la strategia, mentre dalla formazione politica, ispirata al jihaddismo più ol­tranzista (arrivò anche ad ospitare Ossama Benladen negli Anni ’90), ha declinato un senso smisurato del ci­nismo. Salito al potere con un golpe nel 1989, rove­sciando il premier democraticamente eletto, Sadiq al­Mahdi, col sostegno di un’oligarchia locale di chiara ma­trice fondamentalista, Bashir mise immediatamente al bando ogni partito politico, censurò la stampa e sciol­se il Parlamento. Più tardi si arrogò il ruolo di presiden­te del Consiglio di comando rivoluzionario per la sal­vezza nazionale (un organo creato “ad hoc” con poteri sia legislativi che esecutivi) e si auto-nominò capo di Stato, primo ministro, capo di stato maggiore e ministro della Difesa, insignendosi inoltre del grado di mare­sciallo di campo. In tutti questi anni è sempre riuscito a fare il bello e il cattivo tempo, facendosi fautore di un progetto repressivo nei confronti delle minoranze reli­giose presenti in Sudan (cristia­ni in primis) e delle popolazioni nilotiche disseminate nelle re­gioni meridionali. Sebbene gli U­sa lo abbiano ripetutamente o­steggiato considerandolo a capo di un regime «canaglia», nel 1998 promulgò una nuova Costitu­zione, mentre l’anno successivo diede il suo assenso ad una leg­ge, emanata da un Parlamento «fatto a sua immagine», consen­tendo la creazione di associazio­ni politiche minoritarie che han­no comunque sempre fallito nel tentativo di contrastarlo. Nel gennaio del 2005, con l’ac­cordo di pace di Nairobi, pose termine alla guerra civi­le con i ribelli dello Spla (Esercito di Liberazione Popo­lare del Sudan) consentendo alle regioni meridionali del Paese un’autonomia della durata di 6 anni, alla fine del­la quale la popolazione locale dovrebbe potersi espri­mere sulla propria indipendenza da Khartum. Nel frattempo, l’amicizia incondizionata del governo di Pechino gli ha consentito di avere il pieno controllo del business del petrolio e di portare avanti una campagna repressiva contro i ribelli del Darfur.I crimini perpetra­ti dalle famigerate milizie dei janjaweed, al soldo di Ba­shir, hanno perpetrato crimini indicibili nei confronti della stremata popolazione civile darfuriana, costretta in parte a fuggire nel vicino Ciad. L’abilità di Bashir è sempre stata quella di riuscire a de­streggiarsi contemporaneamente sia sul piano interna­zionale, grazie soprattutto al sostegno cinese in sede O­nu, che a livello interno, attraverso una politica repres­siva contro ogni forma di dissidenza. È in questo con­testo che si colloca la sua decisione di arrestare nel gen­naio scorso il leader del partito popolare islamico su­danese, Hassan al Tourabi, considerato il vero ideologo ed eminenza grigia del regime islamico sudanese.