India. In Orissa i cristiani perseguitati da 10 anni
A dieci anni dalla persecuzione, l’India cristiana fatica ancora a comprendere fino in fondo ragioni e conseguenze degli eventi che, a partire dal 25 agosto 2008, hanno segnato profondamente i rapporti con la maggioranza induista. Vi erano stati, esatta un decennio fa, dei segnali come la serrata nel dicembre precedente dei commercianti indù per protesta contro le celebrazioni di fine anno che avevano costretto i cristiani a un Natale senza luci e senza canti per evitare provocazioni. Ma l’uccisione il 23 agosto del 2008 di Laxmanananda Saraswati, fautore di una campagna di conversione dei gruppi minoritari all’induismo, fu il pretesto per un’ondata di violenze senza precedenti che dal distretto di Kandhamal si estese a altre regioni dello Stato orientale di Orissa.
Quella di dieci anni fa non fu una violenza accesa da una rabbia improvvisa per la morte di Saraswati, ma – e a dimostrarlo sono la sua evoluzione, le testimonianze e anche buona parte delle inchieste ufficiali – una campagna pianificata con il proposito di rimuovere dal Kandhamal la presenza cristiana. Un esperimento, insomma, da replicare su scala più ampia e a tempo opportuno, ma in parte fallito per la reazione che non è stata solo delle istituzioni cristiane e della Chiesa cattolica, ma di molte forze che temono la deriva induista dell’intero Paese. Resta e pesa il ricordo del centinaio di morti, del terrore e delle devastazioni di 6.500 abitazioni e di 393 chiese e luoghi di preghiera, della fuga di 56mila persone in molti casi definitiva.
A dieci anni da quegli eventi, da quelle morti e da una frattura che fatica a ricomporsi tra la popolazione cristiana – e per estensione a tutta quella originaria e tribale – e gli indù che li assediano da lungo tempo anche sotto forma di pressione sulle terre e sulle risorse, il Kandhamal vive nel clima di due «cospirazioni» contrapposte.
La prima cospirazione, presunta ma propagandata dall’induismo estremista e accreditata anche da settori del governo guidato dal maggio 2014 da Narendra Modi, sarebbe quella della Chiesa cattolica per destabilizzare il Paese favorendo conversioni e un’attenzione internazionale verso eventi minori da essa stessa provocati. Da qui le accuse di conversioni forzate avanzate sempre più spesso verso leader e istituzioni cristiani e il teorema di una «cospirazione cristiana» anti-induista di cui anche l’uccisione di Laxmanananda Saraswati sarebbe parte, nonostante i ribelli maoisti abbiano a più riprese confermato la proprio responsabilità nell’assassinio.
La seconda cospirazione è quella, denunciata dai gruppi attivi per la difesa delle minoranze e dagli attivisti cristiani, secondo la quale gli indù oggi appoggiati alla politica induista cercherebbero con la persecuzione dei cristiani (e dei musulmani) di imporre il proprio controllo sul Paese nel nome di una «induità» che esclude la convivenza di gruppi diversi. Con obiettivo duplice richiamato dall’attivista cattolico John Dayal: «Obiettivo immediato, estendere l’esperienza di sottomissione del Kandhamal ad altri distretti; obiettivo finale, rimuovere ogni traccia del cristianesimo tra le comunità indigene e poterle così del tutto sottomettere alle vecchie logiche castali e alle nuove logiche del potere economico e politico». «L’impegno settario degli estremisti in Orissa è vecchio di quarant’anni e il Kandhamal è stato scelto per il suo isolamento e per il suo significato per la popolazione cristiana», ricorda ancora Dayal.
Ciascuna delle due parti, ma con una immensa disparità di forze e strumenti di propaganda a favore della prima, rivendica le proprie posizioni come funzionali a una civiltà e a una democrazia che sono insieme radicate e con caratteristiche locali.
Di conseguenza, su quella che gli attivisti cristiani indicano come «la vera cospirazione» dietro i fatti del Kandhamal si è ora attestata la resistenza di molti contro l’induismo connesso alla politica di governo. Una richiesta di giustizia che dalle boscaglie e dalla aree collinari del Kandhamal lancia all’India un messaggio: la discriminazione, che nelle sue varie forme riguarda ancora ben un terzo della popolazione complessiva della regione e almeno il 20 per cento di tutti gli indiani, è oggi funzionale alla leadership induista e rischia di minare non solo le basi dello Stato indiano come indicato nella Costituzione ma anche di minare la credibilità e il progresso della «più grande democrazia del mondo».