L'Ue e i sovranisti. Anche Orbàn fa fronte con la Polonia
Il premier polacco Mateusz Morawiecki (a destra) e il premier ungherese Viktor Orbàn
Nel preciso istante in cui su esplicita richiesta del governo di Varsavia la Corte costituzionale polacca decretava che i Trattati europei sono in contrasto con la Costituzione nazionale e che di conseguenza, a dispetto di quegli stessi Trattati che la Polonia ha sottoscritto, le leggi nazionali hanno il primato su quelle dell’Unione Europea, si ergeva un muro fra la patria di Karol Wojtyla, di Lech Walesa, di Copernico, di Chopin e l’Europa dei valori democratici e della solidarietà. Un muro ideologico, prima d’ogni cosa, ma – guarda caso – sorto in concomitanza con la richiesta di fondi Ue per erigere muri e barriere confinarie allo scopo di impedire fisicamente l’ingresso di migranti sul «sacro suolo polacco».
Dunque un muro politico, visto che l’intemerata di Varsavia si è subito rivelata un richiamo talmente seducente che insieme alla Polonia altri undici Paesi membri della Ue (Danimarca, Ungheria, Austria, Cipro, Grecia, Lituania, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Slovacchia) hanno sottoscritto questo appello, che in filigrana si potrebbe interpretare così: «Noi vogliamo un’Europa libera dai migranti, un’Europa pura nel sangue e nel suolo; ma per difenderci dall’assalto dello straniero ci occorrono fondi cospicui che solo l’Europa stessa ci può garantire». Cioè, violiamo i Trattati ma pretendiamo fondi pubblici per violarli.
"Blut und Boden", sangue e suolo. Concetto antico, preso di peso dalla Germania di Hitler a copertura dell’ideologia razzista del regime. Lo ha adoperato a suo tempo anche Viktor Orbán, in perfetta sintonia con Varsavia, che giusto ieri ha difeso a spada tratta la posizione polacca: «La decisione della Corte costituzionale è frutto della cattiva pratica delle istituzioni europee, che disattendono il principio della delega e cercano di privare gli Stati membri di poteri che non hanno mai trasferito all’Unione Europea allargandoli in maniera surrettizia senza modificare i Trattati». Un «golpe federale», secondo loro.
Ungheria e Polonia del resto vanno da tempo a braccetto nella sistematica erosione dello Stato di diritto, accompagnate sovente da quelle due altre nazioni – Repubblica Ceca e Slovacchia – che fanno parte del Gruppo di Visegrád, un quartetto di ex Paesi satelliti dell’Urss che altrettanto sovente trova eco e piena consonanza nelle tre repubbliche baltiche intimorite sia dalla Russia di Putin sia dalla pressione migratoria. Il premier polacco Mateusz Morawiecki ha buon gioco nel guidare, come il magico pifferaio di Hamelin, gli istinti sovranisti e xenofobi mai sopiti nel cuore nero dell’Europa. Già si parla di «Polexit», ma è molto improbabile che Varsavia chieda di uscire dall’Unione Europea: come altri nove dei firmatari, la Polonia è beneficiaria netta dei fondi strutturali europei, e ancor più lo sarà quando partirà la Next Generation Eu (57 miliardi di euro del Pnrr polacco sono ancora in attesa di approvazione da Bruxelles). Fiumi di denaro senza i quali le fragili economie di quei Paesi (Danimarca e Austria, ovviamente escluse) perderebbero il treno dello sviluppo.
L’ipotesi di sciogliere quel legame di primazia del diritto comunitario rispetto a quello nazionale alletta numerose forze politiche, a cominciare dal Rassemblement National di Marine Le Pen e l’estrema destra di Eric Zemmour in Francia, per finire con Salvini e Meloni in Italia. «Il posto della Polonia è e sarà nella famiglia delle nazioni europee», assicura Morawiecki. La frattura tuttavia è profonda e evidente. Basterà il denaro dei forzieri di Bruxelles a colmarla?