Il dibattito è aperto dal post 11 settembre: è corretto che le organizzazioni non governative che operano in aree di crisi rinuncino a presentarsi come soggetti neutrali di fronte alle popolazioni locali? Quando scatta la sottile linea rossa, l’allerta che impone una misura di protezione maggiore? E fino a che punto vale la pena portare a termine il progetto se non ci sono le condizioni che favoriscono davvero il raggiungimento della missione senza dover ricorrere a programmi di protezione invasivi? Il rapimento e la successiva liberazione di Rossella Urru, la cooperante del Cisp in Algeria, rimette sul piatto la questione, non solo in Italia.«Si tratta di un argomento quanto mai attuale. Negli Usa il dibattito è in corso», fa sapere ad Avvenire Dee Goluba, global security advisor di Mercy Corps, l’organizzazione statunitense fondata nel 1979 da Dan ’O Neil, dopo la guerra nel Vietnam, per portare assistenza ai rifugiati cambogiani vittime dei cosiddetti “killing fields” e oggi attiva in tutti i casi di disastri ambientali e di conflitti internazionali in 43 Paesi nel mondo. La problematica ha acquistato un gran peso nella gestione internazionale dei programmi umanitari in Afghanistan. Non è un segreto che numerosi interventi siano stati abbandonati per mancanza di fondi, benché alla conferenza di Tokyo del 2002, pochi mesi dopo la cacciata dei taleban, i donors abbiano promesso 25 miliardi di dollari per la ricostruzione, ai quali se ne sono aggiunti altri 21 nel 2009. La ong internazionale Oxfam ha calcolato che solo 15 miliardi sono stati effettivamente stanziati: di questi, il 40% è rientrato nei Paesi donatori sotto forma di commesse e salari e una parte consistente è stata utilizzata a fini politici e militari. Con risultati che definire scarsi è un eufemismo.La riflessione generale è che diventa necessario valutare caso per caso. Soprattutto se non si vuole tradire la policy dell’organizzazione e se si vuole continuare a mantenere una buona reputazione presso la popolazione locale, meglio rinunciare a stare sotto il cappello di programmi di intervento e ricostruzione internazionali che potrebbero anche aumentare i rischi per gli operatori umanitari. Salvo ricorrere, in alcuni casi, alla protezione di guardie armate. Kostas Moschochoritis, direttore generale di "Medici senza frontiere" (Msf), non lo nasconde: «In Somalia siamo stati costretti. Così come siamo stati costretti a operare in "remote control" da Nairobi, vale a dire rinunciando a inviare personale internazionale nelle nostre sedi di progetto e a utilizzare la telemedicina. Questo non ha comunque evitato di avere incidenti di sicurezza. Dal 2008 a oggi abbiamo perso cinque operatori e ancora due sono sotto sequestro. Ma la Somalia è la Somalia: un caso più unico che raro».Diversi tutti gli altri casi: «Le ong che in Afghanistan hanno utilizzato le forze alleate per essere scortate, le cosiddette
embedded ngo’s, adesso non hanno più accesso fuori Kabul. Le altre, con tutte le difficoltà del caso, continuano a muoversi sul territorio. La garanzia del nostro lavoro non può essere una mitragliatrice». Il rapporto di International Alert, “Humanitarian action and private Security companies”, redatto nel 2001, mette in guardia le ong da un uso sistematico delle soluzioni “armi in mano”: il rischio maggiore è una «perdita di trasparenza». Per questo, Oxfam Italia ha scelto di attivare delle procedure di sicurezza, ma che non rendano la ong troppo visibile a Gaza, dopo la morte di Vittorio Arrigoni. Riccardo Sansone è il responsabile emergenze: «Abbiamo scelto regole restrittive: mai più uscire da soli la notte, sempre con dei locali, mai meno di tre persone. L’aumento della tensione è palpabile ma mai ci sogneremmo di cedere alla protezione armata».Ciò che fa la differenza, resta comunque la valutazione degli obiettivi degli attori locali. Per Kostas Moschochoritis di Msf i guai per i cooperanti iniziano quando i gruppi armati che controllano determinati territori non hanno a cuore il benessere della popolazione e quando tra essi non esiste una gerarchia: «Succede nel Sahel, in Mali, in Afghanistan: è lì che bisogna anche sapere rinunciare a una missione. Se non puoi dialogare con questi soggetti, come fai a creare un cordone umanitario?». Dee Goluba di Mercy Corps ricorda i primi passi dell’organizzazione in Afghanistan nel 1986: «Se i mujaheddin non avessero avuto questo obiettivo, stretti tra i sovietici e i taleban, non credo che saremmo riusciti a fare qualcosa di buono tra Kabul e Quetta. Oggi, sono molte di più le volte in cui i collaboratori locali ci mettono in guardia dai pericoli che possono giungere da alcuni interlocutori che non il contrario. Sta di fatto che ciò che ci mette al sicuro dai pericoli è il nostro comportamento, il nostro lavoro e l’imparzialità che dimostriamo».La parola d’ordine delle ong, dunque, piuttosto che «intervento ad ogni costo», rimane «negoziato». Paradossalmente è la stessa che i gruppi terroristici pretendono dagli Stati occidentali per avere indietro ogni cooperante rapito.
ALBERTO CAIRO: IL DIALOGO È UN'ARMA, MEGLIO NON AFFIDARSI AI CONTRACTORS»Continua a rifiutarsi all’idea che sia necessario adeguarsi a un «limbo cooperativo». Anche in zone di guerra vere e proprie. Alberto Cairo, fisioterapista, dal 1989 delegato del Cicr (il Comitato Internazionale di Croce Rossa) in Afghanistan, un vita spesa nel progetto per la riabilitazione fisica dei disabili, dal Sud Sudan a Kabul, è noto per la parola che pronuncia più spesso durante i rari incontri pubblici in Italia: dialogo. «Bisogna dialogare, parlare con la gente. Evitare di presentarsi come "colonialisti umanitari"».
Come rappresentante della Croce Rossa è naturale che lei faccia riferimento ai principi di imparzialità, neutralità e indipendenza. Ma in alcuni teatri di guerra non è così scontato. Alcune ong in questi anni hanno preferito fare scelte diverse.«Continuo ad essere convinto che dotarsi di compagnie di sicurezza private sia un errore. Assimila l’organizzazione umanitaria alle forze armate; confonde la popolazione locale sulla reale identità degli occidentali con cui hanno a che fare; rende le ong "di parte"».
Come risolvere però le previsioni di rischio, che non si possono ignorare?«Non voglio dire che non si debba essere guardinghi e prudenti. Prima di muoversi in territori a rischio occorre ben valutare la situazione e contattare tutte le forze in campo, governative e d’opposizione».
Ci sono luoghi, però, dove anche riferirsi agli attori locali diventa difficile, specie nelle situazioni di transizione, di guerriglia, di caduta di regimi, quando ci sono gruppi armati che agiscono in anarchia e non è possibile individuare delle gerarchie.«Certo, in Afghanistan la frammentazione del potere rende la sicurezza sempre più a rischio, ci sono forze incontrollabili. Spesso bisogna ammettere che alcune cose non si possono fare. Ma, ripeto, associarsi a forze armate è peggio: ti fa diventare un target e inviso o almeno sospetto a parte della popolazione».
Lei si muove da anni in Afghanistan. Si è mai fatto scortare?«No, mi sono sempre rifiutato. Giro da anni con la mia auto, tutti sanno chi sono. Forse per questo non è mai accaduto nulla: mi accettano e anche io ho imparato ad accettare alcune realtà che all’inizio mi erano di difficile comprensione fino a sentirmi un afghano anch’io. Credo che, in tutti questi anni, io sia stato molto più protetto dal lavoro che da anni, come Croce Rossa Internazionale, svolgiamo con imparzialità, neutralità e trasparenza, che da armi e blindati. L’essere riconoscibili, utili, accettati: queste sono le uniche garanzie di sicurezza».
MARCO LOMBARDI: LA COOPERAZIONE CON IL CUORE IN MANO È ANACRONISTICA»Anche la cooperazione e i suoi uomini e donne e sono vittime del mondo che cambia rapidamente. Un mondo che non abbiamo ancora compreso fino in fondo». Marco Lombardi, responsabile delle attività di cooperazione in Afghanistan per l’Università Cattolica, sociologo con parecchie "missioni" di "crisis managment" sulle spalle e un’ottima conoscenza del mondo militare, non lo nasconde: la guerra "asimmetrica" ha dilatato il tempo del conflitto in una lunga "zona grigia". E è bene che ci si attrezzi di conseguenza.
Come? Bisogna essere pronti a rifiutare l’inpostazione tradizionale che vuole gli operatori umanitari lontani da qualsiasi calcio di pistola?«Sempre più spesso, i cooperanti si trovano impiegati in contesti dove la sicurezza personale è problematica. Ciò, sul piano teorico, porta a discutere la relazione tra cooperanti e militari che si trovano a condividere frequentemente spazi contigui o sovrapposti. Con non poche ambiguità. È evidente, lo insegna l’Afghanistan e tanti altri teatri di guerra o guerriglia, in Africa e in America Latina, che situazioni di così grande incertezza e rischio saranno frequenti e, pertanto, è necessario un modello più adeguato alla realtà che chiede anche di ripensare i ruoli di ciascuno».
Quindi si dovrebbe accettare l’idea che la cosiddetta "cooperazione civile e militare" sperimentata nei Prt in Afghanistan sia la strada migliore da seguire?«I cooperanti dovrebbero iniziare ad avere una maggiore consapevolezza delle condizioni di rischio in cui si possono trovare. Bisognerebbe mettersi in mente che non è più vero che la condivisione delle difficoltà quotidiane con le popolazioni locali è uno strumento di tutela, né la giustificazione di lavorare “con il cuore in mano” è una corazza».
Quindi la "militarizzazione" dei civili, siano essi giornalisti che operatori umanitari è un dato di fatto che è inutile mettere in discussione?«La minaccia di oggi che viene ai cooperanti non si ferma di fronte alle ragioni "umanitarie" e la loro vulnerabilità diventa quella dell’intero sistema Paese».
Vale a dire che bisognerebbe anche interrogarsi sul fatto che, una volta rapiti, si diventerebbe un costo per tutti?«È chiaro. Mi stupirebbe molto che, prima ancora di partire per imbarcarsi in un’azione umanitaria, non lo si pensasse».