Mondo

VISITA STORICA. ​Obama, la scommessa sul “fronte” Israele-Anp

sabato 23 marzo 2013
«I nostri figli non sono nati per odiare, viene loro insegnato ad odiare». Nelle poche parole pronunciate pubblicamente ieri da Barack Obama si può trovare la sintesi di una visita in Terra Santa carica di simbolismi. Un visita il cui unico risultato concreto, però, è stata la “riappacificazione” – con una telefonata mediata dal leader Usa – tra il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il collega turco Recep Tayyip Erdogan, che avevano congelato i contatti dal 2010 dopo la crisi della Flotilla diretta a Gaza. Il presidente Usa, che durante il suo primo mandato si è scontrato frontalmente con gli ostacoli più alti e radicati alla pace in Medio Oriente, ha rinnovato la sua determinazione a fare da mediatore fra israeliani e palestinesi. Ma più con la sua presenza, con i gesti e con le sue dichiarazioni ufficiali che con proposte specifiche alle parti. Con un toccante discorso ai giovani ebrei, Obama ha scelto infatti di appellarsi alle nuove generazioni, affinché comprendano la «necessità» della pace, come l’ha chiamata, ed esigano dai loro governanti passi avanti coraggiosi. Nei suoi tre giorni fra il Mediterraneo e il Mar Morto, il capo della Casa Bianca ha cercato di rinsaldare il rapporto con Israele, raffreddatosi negli ultimi due anni dal biasimo della Casa Bianca per la continua costruzione di colonie ebraiche in Cisgiordania, rendendo omaggio al legame millenario del popolo ebraico con la sua terra. Durante la visita ai Rotoli custoditi nel Museo Israel, e nel suo discorso di fronte a centinaia di giovani in cui ha ricordato la fuga degli ebrei dai faraoni, Obama ha assicurato il suo assoluto impegno per la sicurezza dello Stato ebraico. «Lo Stato d’Israele non esiste a causa della Shoah. Ma grazie all’esistenza, oggi, di un Israele forte, una nuova Shoah non si ripeterà», ha detto ieri Obama al termine di una visita allo Yad Vashem, il museo della Shoah, accompagnato dal capo dello Stato Shimon Peres e dal premier Benjamin Netanyahu. Un tentativo diplomatico di correggere le dichiarazioni con cui quattro anni fa al Cairo aveva collegato la creazione di Israele all’Olocausto, provocando critiche nel mondo ebraico. Poco dopo, costretto da una tempesta di sabbia a trasferirsi da Gerusalemme a Betlemme via terra, il capo di Stato americano ha fatto visita alla Basilica della Natività, accompagnato dal presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, al quale il giorno prima aveva chiesto di tornare al tavolo negoziale con Israele «senza pre-condizioni», ignorando le richieste territoriali palestinesi. Anche a causa di quei commenti, la popolazione araba della Cisgiordania che Obama ha visto dal finestrino gli ha riservato un’accoglienza fredda. Ben pochi hanno salutato il capo della Casa Bianca lungo il percorso e molti hanno sventolato cartelli che lo accusano di non aver fatto nulla per fermare l’espansione degli insediamenti israeliani nei Territori occupati. Il presidente degli Stati Uniti è quindi partito alla volta di Amman: la sua prima missione in un Paese musulmano dall’inizio della Primavera araba due anni fa. Proprio la caduta di Hosni Mubarak in Egitto ha fatto della Giordania il maggior alleato degli Stati Uniti nel mondo arabo, che la Casa Bianca deve ora salvare dal tracollo economico e dall’instabilità politica. Al centro dei colloqui tra il presidente e re Abdallah – che ribadito il proprio «impegno nel sostenere il processo di pace sponsorizzato dagli Usa» tra israeliani e palestinesi – c’è stata infatti la situazione della Siria e l’emergenza dell’ondata di profughi verso la Giordania, al ritmo di tremila al giorno. Obama e il sovrano ascemita hanno parlato degli aiuti finanziari Usa di cui il Paese arabo ha assolutamente bisogno, con un deficit di 3 miliardi di dollari, una disoccupazione al 30% e un aumento dei prezzi che genera tensioni sociali.