«Inaccettabile». Risuona come una condanna inappellabile il giudizio del presidente americano Barack Obama sull’espulsione dal Darfur delle Ong decisa dal regime di Khartum. Un provvedimento adottato dal governo sudanese all’indomani della richiesta di un mandato di cattura per il presidente Omar el-Bashir emessa dalla Corte penale internazionale dell’Aja (Cpi) per crimini di guerra e contro l’umanità. Obama sa che l’Africa si aspetta molto dal mandato di un presidente americano che proprio nel continente nero vede affondare le sue radici paterne. E sa, Obama, che proprio il Darfur è diventato sinonimo di fallimento per l’Occidente. Dell’impossibilità di agire, anche per ragioni di opportunità geopolitica, pur di fronte ai massacri perpetrati negli ultimi anni da milizie filo-governative che hanno in Cina, Russia e altri Paesi i loro migliori alleati (anche se indiretti) in Consiglio di sicurezza. Se Obama vuole acquisire autorevolezza nel continente nero, il Darfur è il suo Iraq africano, il banco di prova davanti al quale provare il nuovo corso della politica americana a livello globale. «Abbiamo una crisi potenziale di dimensione ancora più grandi di quelle che già vediamo», ha sottolineato il nuovo inquilino della Casa Bianca durante il suo primo incontro con il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon. «Non è accettabile mettere a rischio le vite di molte persone – ha affermato ancora Obama – Dobbiamo essere in grado di far tornare sul terreno queste organizzazioni umanitarie». Sono 5 milioni nel Darfur le persone che dipendono dagli aiuti. Una situazione per la quale Obama è «estremamente preoccupato ». Per questo «gli Stati Uniti vogliono lavorare il più attivamente possibile per risolvere l’immediata crisi umanitaria e per avviarci verso una pace a lungo termine e stabilità in Sudan». Quali passi sia possibile compiere davanti a un regime come quello di Khartum che alle critiche Usa ha già risposto ricordando a Washington i suoi «genocidi» (in Vietnam, Iraq e Palestina) è difficile da capire. Più che su el-Bashir (invitato dal Qatar al vertice della Lega Araba del 30 marzo a Doha) secondo diversi analisti sarebbe meglio concentrare le pressioni internazionali su Pechino e Mosca, che con il Sudan commerciano (con soddisfazione reciproca) in armi e petrolio. Ma in cambio il mondo (e soprattutto Washington) qualcosa dovrebbero concedere, ma quel qualcosa non è del tutto chiaro e scontato. Nel frattempo l’allarme resta. I rapporti Onu parlano di 300mila vittime e di 2,5 milioni di sfollati. E di un dialogo arenatosi sul muro contro muro tra il regime di Khartum e i gruppi ribelli locali. Attualmente non c’è spazioe di mediazione tra i contendenti e il timore di molti è che il mandato di cattura contro el-Bashir non faccia altro che peggiorare il quadro, rendendo ancora più nette le posizioni del regime. Ma c’è anche chi sottolinea come anni di violenze e abusi non possano restare impuniti, e che quindi la decisione dell’Aja costituisce un segnale importante all’indirizzo del regime. La Casa Bianca, all’indomani del mandato di cattura, era stata chiara: «Chi ha commesso atrocità deve essere chiamato a risponderne », era stato il messaggio rivolto a Khartum. Ma il margine di manovra, con un el-Bashir sotto accusa ma ancora così ben protetto, è inevitabilmente ridotto anche per un Obama che dal Darfur vorrebbe trarre una vittoria importante per far rinascere, come da titolo del suo primo libro, i sogni del suo padre keniano. L’assistenza a un bimbo in Darfur (Ap). In basso, al centro: équipe di Medici senza frontiere