LA GUERRA IN SIRIA. Obama e la trappola della crisi siriana
Lui stesso un anno fa ha definito l’uso di armi chimiche da parte di Assad una «linea rossa» il cui superamento avrebbe spinto gli Stati Uniti all’azione. Rimanere a guardare mentre il regime di Damasco sferra attacchi al gas nervino su larga scala farebbe crollare la sua credibilità. Il mondo lo sta osservando. Ma questo è il presidente che, alla fine del suo primo mandato, aveva promesso una politica estera dedicata a difendere gli interessi americani nel mondo e a intraprendere azioni di concerto con gli alleati e le Nazioni Unite.
Gli interessi Usa in Siria sono limitati, e la comunità internazionale è divisa sull’opportunità di un intervento. Obama ha anche imparato, cercando di sbrogliare la matassa dell’Iraq e dell’Afganistan, che il coinvolgimento militare Usa in Medio Oriente non funziona bene, né per gli americani, né per i Paesi coinvolti. I cosiddetti “interventi chirurgici” calibrati per colpire gli arsenali di regimi nemici non sono mai abbastanza precisi da evitare enormi danni collaterali alla popolazione civile, specialmente in città densamente popolate come quelle siriane. In questo senso, lo hanno avvertito i generali, la Siria non è la Libia. Inoltre c’è l’opinione pubblica statunitense con cui fare i conti.
Il 60% degli americani non vuole mandare altri soldati Usa in terra araba, e vuole solo chiudere del tutto il capitolo afghano. Stando ai sondaggi, più di metà dei cittadini Usa sono infastiditi dal ricorso di Obama a ultimatum che potrebbero costringerlo all’azione. In Congresso, al contrario, si stanno moltiplicando le voci bellicose, soprattutto di senatori che, come John McCain, vedono un affronto nella spudoratezza con cui Damasco ignora gli avvertimento di Washington. Obama vuol far sapere ad Assad, e allo stesso tempo a Teheran, che la sua pazienza è finita. Ma non vuole immischiarsi in un conflitto che non gli appartiene.