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Ucraina. Nuove minacce dalla Russia. E Kiev si sente più sola

Nello Scavo - Inviato a Kiev giovedì 22 febbraio 2024

Kiev, piazza Maidan. Il memoriale per i caduti della guerra

Con un messaggio a tarda serata, il 23 febbraio del 2022 Vladimir Putin diceva di dover proteggere le autoproclamate repubbliche del Donbass. Alle 5 del mattino del 24 febbraio il primo missile ipersonico rompeva gli indugi. È così che è scoppiata la guerra. Ma non è così che è cominciata. La gente di Kiev lo sa. E a due anni esatti da allora sa come addomesticare la paura, ma non la rabbia. Si usano parole come «tradimento», per la Polonia che prima accoglie i profughi e poi contesta le importazioni agricole dall’Ucraina. E si proferiscono parole come «delusione», per le armi “Made in Usa” che non arrivano più come si sperava. «I russi lo sanno e da alcune settimane – ci racconta un ufficiale dello stato maggiore – abbiamo deciso di selezionare la reazione: se missili e droni sono lanciati contro le grandi città, allora rischiamo di sprecare i colpi della contraerea pur di intercettare le bombe». Ma se sono diretti verso «obiettivi minori», allora si lascia perdere o ci si limita a sparare qualche colpo. «Non possiamo arrivare in primavera con le casse di munizioni vuote», racconta implorando di non venire identificato. Ieri Yuriy Ihnat, portavoce delle forze aeree ucraine, ha fatto due conti. In due anni l’esercito russo ha lanciato «8.000 missili e 4.630 droni contro obiettivi in Ucraina». Le difese di Kiev «hanno abbattuto 3.605 velivoli senza pilota» e oltre metà dei missili scagliati. Ma è un ritmo forsennato, mai visto in tempi recenti, e il territorio da proteggere è così vasto che gli arsenali per la sola contraerea non bastano più. Anche di uomini ce n’è a sufficienza per arrivare all’estate e contenere la nuova offensiva russa. Il numero complessivo delle vittime militari ucraine non viene reso pubblico. La Russia afferma di sparare solo su obiettivi militari, ma ha ammesso di aver preso di mira le infrastrutture energetiche civili: centrali elettriche e impianti per il riscaldamento.
Più ci si allontana dal fronte e più il colore degli umori cambia. La paura diventa preoccupazione. La rabbia, frustrazione. Andrey Kurkov, uno dei più rinomati autori ucraini, pubblicato fin negli Usa, osserva l’aggressione ma continua a scrivere in russo: «La lingua è mia, non di Putin», disse un anno fa. Davanti al complesso religioso di Santa Sofia, la culla dell’ortodossia slava, guarda i pochi visitatori sulla grande piazza in una giornata senza allarmi. Basta voltare lo sguardo dove non ci sono soldati, né residui della battaglia di due anni fa, per illudersi che la guerra sia solo un sinistro miraggio. «È una situazione molto difficile – dice –. Ma non c’è pessimismo. Tutti guardano a ciò che accade ad Avdiivka e nel Sud». È lì che i battaglioni russi stanno imbastendo le linee per la campagna di primavera, in coincidenza con la traiettoria elettorale che porterà alla rielezione di Putin il 17 marzo, e poi fino alle Europee, e poi novembre, alle temute presidenziali Usa.

Andrej Jurijovyč Kurkov, scrittore e romanziere ucraino - Nello Scavo

«La gente è già molto preoccupata per la mancanza di aiuti americani», racconta Kurkov con il tono bonario di chi non ha bisogno di sbattere i pugni per mettere in fila le parole più dure: «Ho un amico a Chernichiv e tre giorni fa mi ha detto che l’umore lì è molto più triste, c’è molta più preoccupazione di quanta non se ne trovi a Kiev. Lì la gente è preoccupata perché la Russia è così vicina». E infatti hanno ripreso a scappare. In piccoli gruppi. Come Vladislav, che ha lasciato gli anziani genitori ed è arrivato a Kiev. Moglie e figli sono all’estero da un pezzo. Lui ha provato a resistere. «Ma dovevo scegliere», racconta, sapendo che se accadrà qualcosa si sentirà in colpa per tutta la vita. «Loro non potevano fuggire, e mi dicevano sempre che dovevo andare via. Adesso è il momento. Domani il mio villaggio potrebbe già essere russo». E pensare che proprio Kurkov nel 2018 aveva ambientato un suo romanzo nell’allora fascia neutrale del Donbass.
I protagonisti erano due vecchi apicoltori, interessati più alla sorte degli alveari che a quello che accadeva intorno. «Sono più fiducioso nell’aiuto europeo che in quello americano – confessa lo scrittore –. L’aiuto degli Usa dipende dalla politica interna. E in America non è sufficiente avere la maggioranza al Congresso e al Senato. Basta un inghippo e tutto si ferma». Come parlare di negoziato in Ucraina, del resto. Da due anni si inneggia solo alla «vittoria». Ma dopo la lunga mattanza, bisogna cominciare a ragionare sul senso della vittoria, che a questo punto non può più essere «un’immaginaria vittoria totale», dice Kurkov pensando a come proprio il senso delle parole può aiutare a trovare una via d’uscita che non sia una resa a Mosca. Anche se dal Cremlino non arrivano messaggi che in Ucraina possano essere interpretati diversamente dalla necessità di continuare a ricorrere alla resistenza armata. È il solito ex presidente Dmitrij Medvedev ad alzare il tiro. Non che in Ucraina lo prendano sul serio, ma tutti sanno che non direbbe nulla che spiacerebbe a zar Putin. Le truppe russe potrebbero spingersi fino a Kiev, «se non ora, in un’altra fase dello sviluppo di questo conflitto», ha detto l’eterno secondo di Putin.
«Riguardo a Odessa – ha aggiunto Medvedev, attuale vice segretario del Consiglio di Sicurezza nazionale – posso semplicemente dire: Odessa, torna a casa. Questa è la nostra città, russa e della Russia». Abbastanza perché da ieri siano stati rafforzati i checkpoint nella regione che affaccia sul Mar Nero mentre i radar già nella serata di ieri davano in avvicinamento una squadriglia di bombardieri. E in serata sono tornate a suonare le sirene e si sono udite esplosioni di droni.