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India. Il massacro di 90 cristiani in Orissa, nove anni dopo non c'è ancora giustizia

Stefano Vecchia, Bangkok venerdì 25 agosto 2017

Nell'agosto del 2008 ben 600 villaggi del Kandhamal vennero devastti dai fondanentalisti indù (Epa)

Ancora il 5 febbraio scorso, il cardinale Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai e presidente della Federazione delle Conferenze episcopali dell’Asia, si è espresso a favore del riconoscimento del martirio per i cattolici uccisi in Kandhamal. Libri, film, convegni e conferenze continuano a perpetuarne la memoria, ma perdura anche l’incertezza e l’ingiustizia che riguarda chi ha vissuto quei giorni terribili ed è sopravvissuto. Nell’agosto 2008, a partire dal 25, l’India sperimentò le peggiori violenze anticri- stiane della sua storia repubblicana, ma a distanza di tempo, nel Paese molti restano convinti che alla base di quegli eventi ci sia l’impegno proselitista dei cristiani.

Sicuramente il risultato di una scarsa conoscenza della storia di regioni che restano ai margini della storiografia ufficiale e degli interessi dei mass media, ma anche della propaganda nazionalista e filo-induista che si è andata ispessendo negli ultimi anni. Il Kandhamal, distretto dello Stato orientale di Orissa, è abitato da gruppi aborigeni e tribali tra i quali hanno fatto breccia il messaggio evangelico di condivisione e di uguaglianza. Sollevando il sospetto e l’ostilità di leader religiosi indù e, sempre più, l’aggressività di gruppi e individui che esprimono interessi di potere o economici sulla popolazione e sulle risorse del territorio, quelle forestali e minerarie in particolare. Inutile la ripetuta ammissione dei guerriglieri naxaliti (maoisti) che siano stati loro a uccidere il 23 agosto 2008 Laxmanananda Saraswati, uomo di punta del radicalismo induista e dei suoi interessi nella regione, scagionando così i cristiani dei sospetti diffusi immediatamente a piene mani dai seguaci di Saraswati. La persecuzione durò pochi giorni ma la devastazione in termini concreti e di sospetti perdura tutt’oggi.

Furono oltre 600 i villaggi interessati, almeno 6.500 le famiglie attaccate e le loro abitazioni devastate; in 55mila dovettero abbandonare i luoghi di residenza; furono distrutti forse 400 chiese e luoghi di culto, ma non vennero risparmiati istituzioni scolastiche, lebbrosari, sanatori, sedi di organizzazioni di impegno sociale. In almeno 2.000 furono costretti a abiurare la propria fede cristiana. I morti furono una novantina, ma il dolore non è solo per la loro memoria, ma anche per l’incapacità dei sopravvissuti a avere giustizia. «Nel 2008, il Kandhamal ha sperimentato una persecuzione che è una vergogna per la nostra democrazia. Io ho cercato di creare maggiore consapevolezza riguardo i sopravvissuti», ricorda K.P. Sasi, regista indiano il cui documentario “Voices from the Ruins” ( Voci dalle rovine) contribuisce a mantenere attiva la coscienza sugli eventi dell’agosto 2008 ma ancor più sulle loro ragioni.

«Perché - ed è lo stesso Sasi a sottolinearlo - molti che hanno perduto le proprie case durante le violenze vivono tempi difficili». Come testimonia la vicenda dei Pradhan, tre famiglie consanguinee tra la quarantina che abitano l’area sottoposta al giudizio del panchayat (consiglio degli anziani) di Brainguda, le sole battezzate dopo la conversione di oltre un secolo fa. Costretti alla fuga, sono successivamente rientrati per ritrovarsi esclusi da ogni attività, uso di terre e risorse comuni, Impossibilitati persino a recarsi nella foresta per raccogliere quanto loro necessario. Il “perdono”, hanno deciso i capi-villaggio, andrebbe pagato con un’ammenda di 1.000 rupie (poco più di 13 euro), un gesto simbolico che equivarrebbe però a un’ammissione di colpa e insieme all’accettazione di subordinazione verso la maggioranza induista.