Israele-Libano. «Nel nostro kibbutz sul confine alert ogni due ore e valigia pronta»
Danni al kibbutz per la caduta di frammenti di missili
È una buona annata per le mele. Il frutteto è carico, si stimano tremila tonnellate. Sono la principale voce di entrata nel bilancio del kibbutz Sasa. Ma stare all’aperto è vietato, troppo pericoloso. E il raccolto è a rischio. Siamo nell’estremo nord dell’Alta Galilea, in quel kibbutz “degli italiani” che guarda in faccia il confine con il Libano, distante poco più di un chilometro. Da quattrocento che erano, sono rimasti in quaranta: i venticinque responsabili della sicurezza e altri quindici che non se ne vogliono andare. Si prendono cura del kibbutz e lavorano nella fabbrica. «Li ammiro, i nostri sfollati, in un’anonima stanza d’albergo da quasi un anno», sospira Edna Angelica Livne Calò, rimasta a Sasa con il marito Yehuda, ingegnere e addetto alla sicurezza. La fondatrice del Teatro dell’arcobaleno, iniziativa di incontro tra culture diverse (ebrei, drusi, arabi musulmani e cristiani), vent’anni fa volle la sua casa affacciata sulle dirimpettaie alture libanesi. Convinta sostenitrice delle ragioni della pace, intendeva guardare al futuro con speranza.
«Sono stanca, dormo poco» confessa. «Viviamo giornate infuocate, e non solo per gli incendi innescati dai razzi». Il tempo è scandito dai messaggi che avvertono di tenere le stanze blindate rifornite e una borsa pronta in caso di evacuazione improvvisa. «Ogni due ore riceviamo un alert: entrate nei rifugi. Devi restarci dieci minuti dopo il cessato allarme, per evitare frammenti dei missili abbattuti». Uno ha incendiato il meleto e nell’operazione di spegnimento due giovani sono svenuti per il fumo.
Anche l'auditorium di Sasa, dove si tenevano le lezioni del Teatro Arcobaleno, è danneggiato da mesi - E. Calò
Da quando è guerra aperta sul fronte libanese, le scuole sono chiuse in tutta la Galilea, dal lago di Tiberiade fino ad Haifa. Edna insegna teatro all’università di Tel Hai a Kiryat Shmona. Per la ripresa dei corsi, le lezioni sono spostate in un campus a Tel Aviv, 250 chilometri più a sud. «Penso ai miei studenti, ebrei e arabi, che vengono da tutto il Nord. Avevano già affittato le stanze. Ma in questi giorni su Kiryat Shmona, che è grande come Frascati, sono caduti 150 missili».
Dalle televisioni si rincorrono gli appelli a «restare vicino ai rifugi, non aggregarsi in più di dieci persone all’aperto e non più di trecento in luoghi chiusi privi di stanza blindata». Sasa è situata tra due basi militari, una sul vicino monte Meron. Se dovesse scattare un’operazione di terra, sarebbe troppo rischioso lasciare civili in quel kibbutz di confine. «Non voglio neanche parlarne – taglia corto Edna –, perché mi sento male». «Vent’anni fa con i miei alunni andai ad Auschwitz e nel campo di Majdanek – prosegue –. Nonostante io sia cresciuta con le storie della Shoah, anche in famiglia, nulla equivale a entrare là e vedere. Finché non sei nella guerra, non senti i tonfi dei missili, non provi paura per quello che potrà succedere, non puoi capire. Oggi siamo assuefatti alla violenza delle immagini. Ma il nostro frutteto in fiamme non è un film. Le case che scoppiano, le rovine non sono un film. Siamo sotto i missili da un anno».
Negli ultimi giorni, si era ritagliata uno sprazzo di tranquillità accompagnando il marito a tenere un corso in una fabbrica sul Mar Morto. «Ho davanti agli occhi quel mare azzurro, quella meraviglia che solo a guardarla ti fa dimenticare le disgrazie del mondo e ti riempie di energia e speranza». E il pensiero si aggrappa all’idea di una tregua. La televisione dice che è imminente (sarà poi smentita dall’ufficio del premier). «Stanno parlando di un possibile accordo di tre settimane. Forse potremo raccogliere le mele».