8 marzo. BETANCOURT: «Non odio gli uomini che hanno rubato 6 anni della mia vita»
Duemilatrecentoventuno. Li ha contati, uno dopo l’altro, i giorni trascorsi nella giungla colombiana: con dolore, a volte con rabbia, mai con rassegnazione. I sei anni da “prigioniera numero uno” delle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc) non hanno piegato Ingrid Betancourt. A vederla camminare con grazia per le sale del Dock Eurosites di Parigi, sembra impossibile che questa cinquantaduenne elegante, giovanile, raffinata sia la stessa immortalata dalla guerriglia con i capelli lunghissimi, il volto tirato e gli occhi bassi e mostrata al mondo come un trofeo nel 2007. Eppure è lei. La stessa Ingrid, con lo stesso sogno: contribuire alla pace, in Colombia e nel mondo. Prima lo ha fatto come senatrice e candidata alla presidenza, ora come cittadina e presidente della Fondazione che porta il suo nome. È in Francia per l’incontro “Donne contro il fondamentalismo” organizzato dal Consiglio nazionale della resistenza iraniana. La battaglia per il riconoscimento dei diritti femminili è tra le sue priorità. Perché?So per esperienza quanto può essere perverso il percorso verso il disconoscimento dei diritti dell’altro. Sono stata vittima di una guerriglia comunista che mi ha sequestrato. Ma sono stata anche vittima dell’indifferenza dei miei compatrioti. Di chi diceva: “Non si deve negoziare con le Farc, altrimenti le rafforziamo. Dobbiamo sacrificare i rapiti”. Di fronte a prospettive come questa, io mi ribello. Ogni idea che porti a violare i diritti di un altro essere umano è sbagliata e pericolosa. Noi donne dobbiamo essere le prime a combatterle. Per il vissuto – passato e ahimè spesso presente – di negazione delle nostre prerogative, sappiamo guardare il mondo con gli occhi del debole. Trasmettendo questa capacità non difendiamo solo noi stesse: proteggiamo i bambini, gli anziani, i malati. In una parola, è una questione di democrazia. Il tentativo di negare i diritti femminili conduce inevitabilmente verso regimi arbitrari. Se un sistema consente all’uomo di sottomettere la donna, a che titolo questi può protestare perché viene oppresso dal governo? Lottare per diritti delle donne, dunque, significa lottare per la democrazia: e in queste battaglie, io sto sul campo.Ora lo fa come attivista. E domani? Lascerà Oxford dove studia Teologia per tornare in politica a Bogotà? Non lo escludo. Per molti anni, non me la sono sentita e ho detto: basta con la politica. Il processo di pace mi ha ridato la speranza che le cose possano cambiare. Pertanto mi sento pronta a rivedere la mia posizione.Crede che stavolta i colloqui tra governo e Farc, in corso da oltre un anno, saranno risolutivi? Sono negoziati difficili, in condizione, tuttavia, favorevoli. Certo, altre due volte il mio Paese è stato ad un passo dal mettere fine al conflitto. Ed in entrambe le occasioni ha perso l’appuntamento con la storia. Le presidenziali del 25 maggio saranno decisive. Se vince il presidente Santos, credo che la Colombia ce la farà. Perché?Prima di tutto, perché Juan Manuel Santos, come ministro della Difesa del governo Uribe, è stato colui che ha prostrato militarmente le Farc. Ha dunque un’enorme credibilità. Non possono accusarlo di debolezza come hanno fatto con l’ex presidente Andrés Pastrana (che tentò un negoziato, ndr ). Santos, inoltre, pur partendo da una posizione di forza, ha convocato i guerriglieri a un tavolo, trattandoli con rispetto. Per questo, le Farc hanno accettato di negoziare proprio con chi le ha indebolite. Santos non ha un atteggiamento ostile. È un moderno amministratore che vuole risolvere un problema. Per farlo, agisce con coraggio. Non dimentichiamo che in Colombia, tanti gruppi boicottano il processo di pace perché hanno costruito il loro potere politico ed economico sulla guerra.Come fa ad essere così lucida nei confronti di quei guerriglieri che le hanno rubato parte della vita? È una questione di coerenza. Ho sempre creduto che la Colombia dovesse percorrere la via della pace. E ho continuato a pensarlo anche mentre ero prigioniera. Lo dicevo ai guerriglieri: la logica del muro contro muro non ha senso. Forse perché io e i miei figli abbiamo vissuto il dramma della guerra sento l'obbligo morale di dare il mio contributo per mettervi fine.Sarebbe disposta a star seduta nella stessa Assemblea con ex esponenti delle Farc? Non solo sarei disposta a farlo, ma spero che agli ex guerriglieri sia con consentito di partecipare alla politica. Devono smettere di affermare la loro prospettiva con la violenza e discuterla dentro il Congresso. La democrazia esiste proprio perché persone con idee differenti non debbano uccidersi per imporle. Nella Colombia pacificata non può esserci spazio per la vendetta. Ha perdonato le Farc? Sì. Ma il perdono è un esercizio quotidiano (fa una lunga pausa, poi riprende ndr ). Perché fa male. L’altro giorno, mia figlia mi ha mostrato tre lettere che lei, il fratello e suo padre mi avevano scritto il 28 ottobre 2002, ero nella giungla da meno di un anno. Le abbiamo lette insieme, ci siamo emozionate… A un certo punto lei mi ha detto: “Mi costa perdonarli”. Le ho risposto: “Anche me. Ma non c’è altra opzione. Non possiamo vivere il resto della vita sotto il peso dell’odio”. Il perdono non è un regalo che si fa all’altro. Lo si fa a se stessi perché si può riabbracciare un essere umano e dirgli: “Mi hai fatto soffrire ma ti riconosco come mio simile, uomo”. La fede la aiuta in questo percorso? Tanto. Essere cristiani significa riconoscere all’altro, in ogni altro nessuno escluso, la sua umanità. A proposito, da latinoamericana, le piace papa Francesco?No. Lo amo… (ride).