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Ucraina. «Non ce la facciamo più». La guerra nelle telefonate al centralino di Kharkiv

Giacomo Gambassi, inviato a Kharkiv sabato 17 agosto 2024

Un soldato ferito, appoggiato alla stampella, davanti al Muro della memoria a Kiev: il memoriale raccoglie le immagini dei militari ucraini caduti in due anni e mezzo di battaglie

«Veniteci a salvare. Non ce la facciamo più sotto il fuoco russo. Siamo in quattordici». La voce al telefono è concitata. E la chiamata arriva al numero regionale delle evacuazioni. Una delle molte che continuano a far squillare i telefoni di Kharkiv affidati alle organizzazioni di volontariato. Telefonate che giungono dai villaggi nell’estremo oriente dell’Ucraina su cui si accanisce l’esercito di Putin che non ha ridotto l’intensità dei combattimenti dopo l’incursione di Kiev nell’oblast russa di Kursk. Quando l’operatore chiede in quale località si trovino gli irriducibili che stanno resistendo alla devastazione russa, dall’altro capo Ivan indica il nome di uno degli insediamenti nel distretto di Vovchansk che sono già finiti in mano russa. E la risposta non può che essere una, inesorabile e crudele: «Purtroppo non possiamo più recuperarvi con un convoglio umanitario. In un territorio occupato è impossibile entrare». Vietato raggiunge anche Vovchansk stessa, la cittadina sotto assedio da tre mesi e ormai rasa al suolo, che non è ancora caduta ma è prigioniera degli attacchi di Mosca.

L’offensiva lanciata a maggio dalla Russia intorno a Kharkiv ha fatto della seconda città del Paese un rifugio per migliaia di sfollati di guerra che i raid di Putin hanno moltiplicato. Primo e unico “porto sicuro” per la maggior parte di loro che vivevano negli abitati presi d’assalto lungo il confine russo o nella vicina regione di Donetsk su cui si concentrano gli sforzi del Cremlino per completarne la conquista. Ma anche possibile approdo di una nuova ondata di profughi con la ritorsione annunciata da Putin all’indomani della “guerra lampo” ucraina sul territorio russo. E Kharkiv si ritiene già investita dall’eco della vendetta targata Mosca: sia perché la città con l’intera oblast fa già i conti con un’escalation di attacchi; sia perché si prepara ad aprire le porte agli sfollati delle zone circostanti che vengono bersagliate. Come testimonia la decisione di evacuare migliaia persone dai paesini a ridosso della frontiera nella limitrofa regione di Sumy, da cui è partito lo sfondamento nella Federazione russa e che è stata presa di mira da una settimana: nelle scorse ventiquattro ore sono stati conteggiati 33 bombardamenti e 138 esplosioni d’artiglieria.

Le statistiche ufficiali dicono che negli ultimi tre mesi, da quando l’armata di Putin avanza nell’est della nazione, 15mila rifugiati hanno trovato protezione a Kharkiv. E si sono registrati nei centri d’accoglienza per restare a vivere in città. «Ma i profughi arrivati nel capoluogo da maggio sono almeno il doppio: 30mila», spiega Olga Komeresta, responsabile dell’unità di crisi della Caritas greco-cattolica. Una comunità invisibile e sradicata. «Però soltanto un decimo degli evacuati ha lasciato la città e se n’è andato altrove», racconta Irina Smernova, coordinatrice di uno dei poli di registrazione dove chi ha perso tutto prova a rifarsi una vita: a partire «dai documenti, dal letto che viene offerto in un edificio pubblico, da un pacco di alimenti», riferisce Irina. E aggiunge: «A Kharkiv gli sfollati restano». Sembra quasi un paradosso. Non si ha neppure più la forza di fuggire dalla metropoli su cui Mosca intende mettere le mani. Tanto che, secondo un computo del municipio, un milione e mezzo di persone abitano nella città a cinquanta chilometri dal confine russo.

«C’è bisogno di prendersi cura di quanti non hanno più niente. Soprattutto degli anziani che hanno abbandonato i piccoli villaggi e si sentono persi in una metropoli», dice la referente di Caritas Ucraina. È una vita di povertà e rimpianti quella dei rifugiati a Kharkiv. «Avete un materasso?», chiede Yuriy Cidim davanti alla Cattedrale greco-cattolica nel giorno della distribuzione degli aiuti. «Con mia moglie Nadia dormiamo per terra. Non c’è neppure il letto nell’appartamento che abbiamo appena affittato. È l’unico che possiamo permetterci…».

Sono evacuati da uno degli agglomerati intorno a Vovchansk. Tremila grivnia il contributo che ricevono al mese come profughi: meno di settanta euro. E poi c’è la pensione: lei da perito chimico; lui da operaio. «Abbiamo perso tutto, ma almeno siamo salvi», prova a rassicurare Yuriy. Se ne sono andati in auto prima che i russi facessero terra bruciata nel loro agglomerato. «Poi un uomo ci ha spedito un video sul cellulare. La nostra casa era stata colpita da un razzo e non resta più niente. Le fiamme uscivano anche dal giardino», sospira Nadia con le lacrime agli occhi. E mostra una foto: fra i ruderi anneriti rimane in piedi un canestro. «È quello con cui giocavano i nostri tre nipoti quando venivano per le vacanze». Solo ricordi. E macerie.

«È una guerra di potere quella che si è abbattuta su di noi – sostiene Yuriy –. Non capisco perché i russi ci rubino il territorio quando hanno un impero». Però qualche convinzione ce l’ha. La prima: «Resisteremo. Non si prenderanno anche Kharkiv». E la seconda: «Ho un figlio militare. Qualcuno deve averci tradito se la nostra casa è stata centrata così». L’ombra dei collaborazionisti si allunga sui villaggi e sulle città diventate campi di battaglia. Vale anche per il capoluogo dove aumentano gli arresti di chi passa dalla parte del nemico. «Spesso per soldi, non per motivi ideologici», fa sapere la polizia. Un altro macigno che amplifica i traumi di guerra.

«Cerco di non pensare a quanto ci è successo – dice Yuriy –. Ma ogni volta che entro nell’appartamento dove ci siamo trasferiti, scoppio a piangere». Ha 72 anni. Come la moglie. E da più di sessanta sono insieme. «Ci siamo conosciuti in prima elementare», afferma Nadia. In una borsa ha messo il cibo in scatola e un paio di vestiti che i ragazzi della parrocchia le hanno consegnato. «Sopravviviamo con ciò che ci danno i parenti, la Chiesa e qualche organizzazione. «Avevamo tutto a Vovchansk. Erano i sacrifici di una vita. Avevamo anche le mucche e i maiali. Come ci può essere qualcuno che distrugge tutto e se la prende con la gente comune?». Una pausa. «Adesso l’unica cosa che possiamo fare è aspettare la pace».