Il tifone Haiyan che l’8 novembre ha devastato la parte centrale dell’arcipelago filippino ha portato all’attenzione internazionale isole finora conosciute come paradiso di un turismo ecologicamente sensibile, terre di estese piantagioni necessarie all’esportazione, di una pesca centrale nell’economia e di risaie preziose per un Paese giovane e popoloso: Leyte, Samar, Cebu, Bohol, Iloilo, Bantayan. Il vento con raffiche fino a 320 chilometri orari e piogge torrenziali sono stati quel giorno le avanguardie di una devastazione completata dalle onde di 6-8 metri che si sono abbattute con la forza di uno tsunami sulle coste più esposte, cancellando intere comunità e spingendosi per chilometri nell’interno. Tacloban, la città-simbolo del cataclisma, è stata cancellata se non per poche strutture rimaste parzialmente in piedi ed è anche diventata teatro del caos dei soccorsi e della tragedia di una popolazione costretta a convivere per giorni con i cadaveri e con gli sciacalli, senza acqua né cibo.La spinta della solidarietà interna e internazionale è stata fin dall’inizio notevole, frenata per due settimane solo dalla mancanza di infrastrutture, di collegamenti e di organizzazione. Tra primi interventi, quello della Chiesa italiana: a poche ore dalla tragedia la Conferenza episcopale italiana ha stanziato tre milioni di euro dei fondi dell’otto per mille. Per dare una risposta ancora più concreta, i vescovi italiani hanno promosso per domani la Giornata di raccolta straordinaria di fondi nelle chiese da veicolare verso le sfortunate popolazioni filippine attraverso la Caritas. Un sostegno, seguendo le parole di papa Francesco che in più occasioni ha lanciato appelli alla solidarietà verso le popolazioni colpite dal tifone, che vuole anche essere una prova di solidarietà verso l’industriosa comunità dell’arcipelago nel nostro Paese, in parte proveniente propria da quelle isole, grande serbatoio migratorio.Oltre le cifre delle vittime (5.500 morti, 1.757 dispersi, quasi 27mila feriti), gli oltre 4 milioni di sfollati, di cui solo 300mila ancora nei centri di raccolta, segnalano una situazione che ha ancora le dimensioni dell’urgenza se non dell’emergenza. Fino dai primi giorni dalla catastrofe, si è molto discusso sulla preparazione del Paese a una crisi di questo genere, alla risposta evidentemente inadeguata, persino ai tentativi di sminuire le dimensioni del dramma quando è apparso giorno dopo giorno sempre più evidente e acuto. Tutto va però contestualizzato in un Paese che solo da pochi anni ha sviluppato un servizio di protezione civile, che basa la prevenzione sull’evacuazione volontaria e il “dopo” su strutture, interventi e aiuto a dir poco essenziali. Le dimensioni di Haiyan la sua forza e, in particolare l’inattesa altezza delle onde sollevate dal super-tifone, hanno superato ogni previsione e travolto ogni possibilità del Paese. Avviando anche un ripensamento sulla sensibilità politica ed ecologica.Son stati 14 milioni gli abitanti interessati all’evento, 650mila le abitazioni rese inagibili o distrutte. I danni potrebbero superare i 4,5 miliardi di euro (900 milioni per le sole strutture sanitarie-ospedaliere, oltre 400 milioni quelli per per l’agricoltura e le strutture abitative), ma le conseguenze sulle comunità comunità locali dureranno a lungo.L’arrivo massiccio di soccorsi d’emergenza sta infatti gradualmente sfumando verso la fase di riabilitazione e di ricostruzione che metterà alla prova le capacità di gestione e l’onestà delle autorità e delle strutture governative. Anche della capacità di tutela di gruppi di popolazione che dispersione delle famiglie, nuova povertà e caos amministrativo possono mettere a rischio – giovani donne e bambini, in particolare – di sfruttamento o abuso.Le organizzazioni di aiuto invitano a «non spegnere i riflettori sul dramma delle Filippine». E gli esperti mettono in guardia sul rischio di soluzioni dettate dall’urgenza e dall’emotività, oppure frenate da un eccesso di regole unite a scarsa trasparenza. Occorrerebbe, avvertono, anche valutare precedenti esperienze, come quella del recupero e del rilancio delle aree più colpite dal disastroso tsunami del 26 dicembre 2004, in particolare la provincia indonesiana di Aceh. «Per essere in grado di raggiungere l’obiettivo di una vera riabilitazione, occorre superare le regole abituali della burocrazia», avverte Heru Prasetyo, tra i responsabili dell’Agenzia per la ricostruzione e la riabilitazione di Aceh, l’organismo incaricato di organizzare la rinascita della provincia dove si contarono 170mila vittime. Da allora sono state 130mila le abitazioni ricostruite, oltre a 250 chilometri di strade e altre infrastrutture, è stata rilanciata l’economia. Un esempio, quello di Aceh, segnalato come un successo dalla comunità internazionale.