Ucraina. «Noi, schiavi sotto i russi». Le voci dall’«oltrefiume» nei territori occupati
Un anziano per strada a Kherson: la speranza è una controffensiva per cacciare i russi
Le voci dell’oltrefiume giungono bisbigliando parole dure: «Sarebbe stato meglio morire affogati tutti, noi e i rashist, anziché vivere come prigionieri e come loro schiavi». Metà della regione di Kherson è ancora occupata. Da qui una rete clandestina di giornalisti e informatori raccoglie le testimonianze di chi è rimasto sotto lo scarpone di Mosca: minacce, abusi, sparizioni, torture.
E’ il corso del Dnepr a dividere metà il distretto: da questa parte l’Ucraina liberata, dietro la riva opposta l’Ucraina occupata, delimitata dal fiume e dal tiro di artiglieri e cecchini russi. Ci vogliono giorni, alcune volte settimane, per mettere insieme i pezzi. Inviare una domanda attraverso canali protetti, e attendere risposte che non sempre arriveranno. Alcune volte perché è diventato impossibile comunicare, altre perché gli informatori vengono fatti sparire nel nulla.
«Rashist» è un epiteto affibbiato alla soldataglia russa. Un neologismo che salda tre parole: «russo», «razzista», «fascista». A tenere i contatti è lo stesso gruppo di reporter partigiani che nei mesi della prima brutale occupazione di tutta la regione di Kherson aveva realizzato un blog clandestino. Dall’interno riuscivano a trasmettere testimonianze e richieste d’aiuto. Ora che sono tornati nel capoluogo liberato, non c’è solo il continuo fuoco della vicina artiglieria moscovita a ricordargli che dietro l’argine opposto ci sono ucraini che non hanno scelta. Raccontano la loro quotidianità con brevi messaggi e qualche stratagemma. Come fossero le briciole di Pollicino, lasciano cadere piccole informazioni nella speranza che prima o poi gli occupanti vengano scalzati da una nuova controffensiva, che al momento non è in programma.
L’inondazione provocata lo scorso anno dalla distruzione della diga di Kakhovka aveva trasformato l’intero distretto di campagne fertili in una palude di sabbie mobili e miasmi e molti approfittando della piena devastatrice hanno raggiunto il versante liberato con zattere di fortuna, inseguiti dai colpi di mortaio e dal tiro dei cecchini. A decine ne sono morti mentre le cannonate sparate in mondovisione alle loro spalle facevano esplodere l’acqua scura.
Per qualche giorno le prime linee vennero arretrate. «Ma i rashist sono tornati quando l’acqua si è abbassata», riferisce la voce di donna che ha consegnato un messaggio vocale con l’intonazione rassegnata di chi sa che quelle parole potrebbero essere le ultime. «I rashist ci rubano anche da mangiare, dicono che non abbiamo diritti fino a quando non decidiamo di accettare il passaporto russo. Gli abbiamo chiesto di lasciarci andare. Si prendano anche la casa e le bestie che non sono morte affogate, tanto per noi vivere qui vuol dire non avere più niente. Ce ne andiamo e voi prendete tutto, gli abbiamo detto. Ma non ce lo permettono». La vita in cambio della terra, questo hanno offerto. «Loro vogliono tutto, e quando sono ubriachi è meglio che le donne non si facciano vedere».
Sasha, il reporter che fa da tramite, chiede di non rendere identificabile neanche il luogo di provenienza né gli altri dettagli con cui Avvenire ha incrociato le informazioni. «I russi sanno che alcune notizie vengono fatte comunque circolare e agli occupanti fa anche comodo che la gente abbia paura, ma temiamo rappresaglie su villaggi se venissero identificate le nostre fonti o la loro provenienza».
Nessuno ha dimenticato la camera della torture in centro città a Kherson, quando gli interrogatori e le sevizie avvenivano con le finestre aperte. Tutti dovevano sentire. Il sangue rappreso è ancora sulle pareti, a perenne ricordo di quel che è stato.
Le autorità di occupazione sono a conoscenza del rischio che informazioni sui crimini commessi all’interno possano filtrare. Nonostante l’impegno tecnologico di Mosca per inibire le comunicazioni, per l’esercito russo è impossibile bloccare con mezzi di disturbo la propagazione del segnale della telefonia mobile che dal lato ucraino raggiunge i territori occupati più vicini al corso del Dnepr. Tre giorni fa l’esercito russo ha bombardato uno dei villaggi “liberati”, circoscrivendo il tiro dell’artiglieria intorno a un ripetitore della telefonia. Quando il fumo è svanito, i soldati ucraini dalla parte opposta del fiume hanno visto il traliccio ridotto a ferraglia. E di nuovo il silenzio nelle comunicazioni. Le informazioni trasmesse dagli ucraini che ancora sperano nella liberazione hanno anche lo scopo di ricostruire l’organigramma dei nuovi amministratori locali. Si spiegano così alcuni omicidi mirati commessi con modalità che confondono gli ufficiali occupanti. Alcune volte si tratta di operazioni commesse da “partigiani ucraini” che entrano in azione dall’interno. Altre di missioni compiute con piccoli droni che trasportano granate che poi sganciano su quelli che vengono indicati come «traditori». Ad aprile una serie di attacchi ha preso di mira la residenza e l’auto di Olha Baranovska, promossa dirigente dell’amministrazione locale della Kherson occupata direttamente dagli ufficiali di Mosca. Da gennaio di quest’anno sono almeno 21 i sabotaggi e gli attentati compiuti all’interno dei territori occupati. L’elenco che ci viene mostrato corrisponde a una serie di misteriosi fatti di cronaca che le forze russe hanno reso noti sui canali della propaganda.
A conferma, giunge la notizia dell’invio di rinforzi dell’Fsb, il servizio segreto interno russo. Hanno l’ordine di stanare i membri del movimento di resistenza clandestino e rafforzare la campagna per la consegna del passaporto russo. «Ricorrono alla minaccia di deportazione per chi non chiede la cittadinanza russa entro il 2024», leggiamo in un altro messaggio dall’oltrefiume. Agli adulti è concesso di rinunciare alla perdita della nazionalità ucraina, non senza conseguenza: niente contratti di lavoro e il sospetto di cospirazione per conto di Kiev. Va peggio a chi ha dei bambini. «Ci dicono che se non prendiamo il nuovo passaporto ci toglieranno i figli perché non siamo in grado di dargli una buona educazione russa - racconta un altro ucraino da un villaggio assediato a ridosso della Crimea -. Non abbiamo scelta: diventare russi o rischiare che ci portino via i bambini per consegnarli presso istituti russi». Il più cattivo dei ricatti.
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