Oslo. Il Nobel per la Pace alla donna che resiste al regime iraniano
Narges Mohammadi è rinchiusa nel carcere di Evin
L’iraniana Narges Mohammadi ha vinto il premio Nobel per la pace 2023. "Il Comitato norvegese per il Nobel ha deciso di assegnare il Premio Nobel per la pace 2023 a Narges Mohammadi per la sua lotta contro l'oppressione delle donne in Iran e per la promozione dei diritti umani e della libertà per tutti", questa la motivazione ufficiale. Narges Mohammadi, 51 anni, è una delle più note attiviste iraniane. Si è battuta per i diritti delle donne e l'abolizione della pena di morte. Attualmente sta scontando diverse condanne nella prigione Evin di Teheran, per un totale di circa 12 anni di reclusione con accuse vari, che includono la diffusione di propaganda contro lo Stato. Narges Mohammadi è il vice-capo del Centro per i difensori dei diritti umani, un'organizzazione non governativa guidata da Shirin Ebadi, a sua volta vincitrice del premio Nobel per la pace esattamente vent'anni fa. Mohammadi è la diciannovesima donna a vincere il prestigioso riconoscimento.
LA "DELUSIONE" PER KABUL
“Donna, vita, libertà”, non è solo lo slogan della rivolta nonviolenta iraniana. E’ la sintesi della rivolta di cui questo tempo ha urgente necessità. Il Nobel per la pace a Narges Mohammadi ne è la certificazione di fronte al pianeta ferito da molteplici linee di frattura e lanciato in una sfibrante corsa al riarmo. Come Mahsa e le centinaia di migliaia che hanno affollato le piazze di Teheran e dintorni nell’ultimo anno, quest’attivista di 51 anni ha combattuto e combatte con il proprio corpo incarcerato nella prigione di massima sicurezza di Evin, rifiutando di distruggere il corpo altrui. Alla brutalità del regime, Narges e gli altri oppongono intelligenza, coraggio, creatività. Con la vita, più forte di qualunque intento di ingabbiarla.
Reclamano libertà e diritti per se stessi e per tutti. E il “tutti” è la chiave. La rivoluzione al femminile iraniana non è “delle” e “per” le donne bensì per ogni cittadino e cittadina. Poiché se a qualcuno è negata la cittadinanza piena – in nome del genere, dell’etnia, della religione, degli orientamenti politici o sessuali –, nessuno è davvero cittadino. Anche se sulla carta è convinto di esserlo.
Donna, vita, libertà. Per l’Iran e per il mondo, dove si moltiplicano analoghi movimenti di resistenza. Per questo, sarebbe stato bello, che il Comitato di Oslo insignisse del riconoscimento – come previsto nella cinquina finale delle candidature - anche Mahbouba Seraj, protagonista di una rivolta analoga in una nazione vicina ma ormai esclusa dalla ribalta internazionale: l’Afghanistan.
Troppo bruciante la delusione dell’Occidente per il fallimento dei propri miraggi di “democrazia da esportazione” con i raid a tappeto sui villaggi di civili per non condannare Kabul all'oblio. Troppo duro ammettere di avere sbagliato a lasciare l’amministrazione nelle mani di ex signori della guerra corrotti e brutali quanto – o forse più – dei taleban. L’Afghanistan fa male a Washington e non solo. Eppure, se si togliessero le lenti dell’ideologia che consentono di accendere i riflettori su Teheran e spegnergli su Kabul, si vedrebbe in questa nazione un laboratorio di resistenza. Le cui protagoniste sono proprio le donne. Mahbouba Seraj che, nonostante il passaporto Usa, ha scelto di restare a Kabul per tenere aperti i rifugi per le vittime di violenza domestica, gli ultimi rimasti. E le molte, moltissime, che continuano a studiare, a cantare, a ballare, che sfruttano ogni centimetro di spazio lasciato loro nella gabbia soffocante dell’Emirato per continuare a vivere e a far vivere.
Donna, vita, libertà.