Due anni fa, il 15 aprile 2014,
276 ragazze furono sequestrate dal gruppo estremista islamico Boko Haram dalla
scuola di Chibok, nello Stato nord-orientale di Borno, in
Nigeria. Solo una cinquantina riuscirono a fuggire. Il loro sequestro scatenò un’onda di commozione internazionale, con la campagna
#bringbackourgirls su Twitter, alla quale aderirono anche
Michelle Obama e la pakistana
Malala Yousafzai, Premio Nobel per la pace.
Nel frattempo altre ragazze rapite sono state liberate dall’esercito nigeriano, ma delle
219 studentesse di
Chibok non si sa più niente.
“Long war journal”, un sito specializzato nello studio del terrorismo, ha azzardato che
alcune delle rapite in questi anni – più di 2.000 secondo Amnesty international, compresi i ragazzi –
vengano utilizzate anche come kamikaze, oltre che per sfruttamento sessuale o lavorativo. Si stimano in più di 30mila le vittime del gruppo fondamentalista, dal 2009 ad oggi. Intanto in
Nigeria l’
esercito sembra aver preso il controllo del territorio dove opera
Boko Haram e
si parla di una resa del gruppo.
L'Agenzia Sir ne ha parlato con il
cardinale John Olorunfemi Onaiyekan,
arcivescovo di
Abuja, a Roma per partecipare a un convegno sui bambini che convivono con il virus Hiv, organizzato da Caritas internationalis, UnAids e Ospedale pediatrico Bambin Gesù. Il cardinale invita ad affrontare le prossime sfide con la riconciliazione e il dialogo.
C’è qualche speranza di ritrovare le ragazze rapite?
E’ un mistero che non si capisce. Se fossi al posto del governo sarei imbarazzato per questa situazione: oltre 200 ragazze sparite senza lasciare traccia, nel 2016 e con telefonini ovunque. Non sono bambine ma giovani dai 15 ai 20 anni, è stranissimo che nessuna di loro sia riuscita, finora, a contattare le famiglie. Questo caso clamoroso ha attirato l’attenzione sui rapimenti di Boko Haram, ma non è un fatto isolato: anche prima sono stati rapiti bambini, ragazzi, donne, nel nord-est del Paese. Ora che non controllano più il territorio è più difficile, per loro, gestire un numero alto di ostaggi, quindi li abbandonano e fuggono. Molti vengono liberati dalle forze dell’ordine.
Ma ci sono problemi anche dopo, perchè le famiglie non riabbracciano le ragazze rapite con gioie. Le chiamano ‘Boko Haram wives’, mogli di Boko Haram, e i figli che nascono da questo crimine contro l’umanità vengono rifiutati.
Come reintegrare in società le persone liberate da Boko Haram o i combattenti pentiti che rinunciano alla lotta armata?
Il governo sembra non aver ancora deciso cosa fare con coloro che escono dai campi di Boko Haram, sia le donne rapite, sia i combattenti pentiti. Da mesi chiediamo che il governo abbia una politica proattiva che cerchi di accogliere chi vuole staccarsi da Boko Haram, invece di considerarli tutti criminali, terroristi, e metterli in prigione. Bisognerebbe fare un lavoro sociale e culturale per sradicare i radicalismi. Questa dovrebbe essere una grossa preoccupazione del nostro governo, come è stato per lo sforzo militare fatto. E’ un peccato che non ci sia la volontà politica di affrontare il fenomeno con mezzi non militari. Ora Boko Haram di fatto non esiste più, sono diventati dei banditi che rendono la zona non sicura. Ma è difficile risolvere il problema solo aumentando il numero di militari per controllare il territorio.
Ci vuole una soluzione politica, parlare con i capi e trovare qualche forma di scambio. Ad esempio concedere il perdono se mettono da parte le armi.
Lo scorso anno il gruppo ha giurato fedeltà all’Isis, che legami ci sono con le altre organizzazioni estremiste?
Il mondo oggi è un villaggio globale. Tanti giovani nigeriani hanno combattuto con i talebani o Al Qaeda, si dice che tanti veterani di Boko Haram sono veterani delle guerre in Afghanistan e in Iraq. Molti di loro parlano il “pidgin arab”, vuol dire che hanno avuto una lunga esperienza con combattenti del Medio Oriente. Tra organizzazioni le idee sono uguali: è un islam molto estremista, fanatico, che rifiuta anche i non musulmani che la pensano diversamente.
Come combattere allora i radicalismi?
In due modi: c’è un aspetto politico-sociale che riguarda il governo. C’è chi parla di una sorta di ‘Piano Marshall’ per quella zona, che per tanti anni è stata trascurata. Sarebbe necessario un programma sociale e culturale per cambiare la situazione, perché è un territorio che rifiuta il progresso e considera nefasta l’istruzione e lo stile di vita occidentale. Bisogna trovare un modo per aiutare i giovani musulmani arrabbiati, affamati e vivere insieme in pace. L’altro aspetto è più ideologico-teologico e riguarda il dialogo all’interno del mondo islamico: io non posso parlare con i membri di Boko Haram, deve farlo un’autorità musulmana, per recuperare questi giovani e convincerli a cambiare posizione. Non dimentichiamo che il fenomeno è iniziato pochi anni fa ma ha fatto emergere tendenze estremiste che erano già lì.
Il terrorismo di matrice islamica ha ferito al cuore anche l’Europa: quali differenze trova con la situazione nigeriana?
Il terrorismo in Europa è molto diverso, non ha niente a che fare con quello che viviamo in Nigeria. In Europa si tratta di poche persone che compioni azioni clamorose per spaventare le persone, non per prendere il controllo dei governi. In Europa è un problema di sicurezza, in Nigeria riguarda la convivenza tra musulmani e cristiani, che grazie a Dio è stato finora un progetto positivo. Non dimentichiamo che nell’esercito nigeriano ci sono cristiani e musulmani e, di fatto, siamo tutti contro Boko Haram.