America Latina. Nicaragua, regime in festa per nascondere la rivolta
Un pick up carico di poliziotti a Masaya (Ansa)
Monimbó s’è svegliato di soprassalto, destato dal suono delle campane. I rintocchi hanno allertato gli abitanti del quartiere indigeno di Masaya dell’irruzione dei paramilitari, le “turbas”. Sono questi ultimi il braccio armato dell’“Operación limpieza” (Operazione pulizia) lanciata dal governo nelle ultime settimane per fermare la protesta, giunta oggi al terzo mese consecutivo. A Monimbó, roccaforte della resistenza, hanno agito con particolare zelo.
Le “turbas” hanno sparato sulla gente che cercava di difendere le barricate, la parrocchia di Santa Maria Maddalena s’è ritrovata sotto il fuoco per ore. Almeno un agente è morto, decine di persone sono state arrestate. A mezz’ora d’auto di distanza, nella Plaza de la Fé di Managua, invece, fervevano i preparativi della festa, vigilati dai Kalashnikov della polizia. Il presidente Daniel Ortega, chiuso nella casabunker della Colonia del Carmen, lo ha detto con irrevocabile chiarezza ai suoi fedelissimi: niente deve rovinare, domani, la celebrazione dell’anniversario della rivoluzione che, 39 anni fa, mise fine alla sanguinaria dinastia del clan Somoza.
Il 19 luglio 1979, la colonna sud dell’esercito ribelle, il Fronte sandinista di liberazione nazionale, entrò trionfante a Managua. Daniel Ortega arrivò il giorno successivo, insieme al resto della giunta di governo. Retorica a parte, però, è difficile scorgere il comandante di allora nell’attuale presidente-dinosauro. Al potere da 11 anni e deciso a restarvi, dopo aver cambiato la Costituzione, creato gruppi paramilitari per reprimere il dissenso, assegnato ai familiari i principali incarichi istituzionali.
A cominciare dalla moglie, Rosario Murillo, vice e “eminenza grigia” dell’intero apparato. Non sorprende, dunque, che, agli occhi della gente, sia diventato via via più simile al deposto Anastasio Somoza che all’eroe nazionale César Augusto Sandino, alla cui lotta per la libertà dalla dominazione straniera e la giustizia si richiama il movimento sandinista. Eppure il governo di Ortega è parso, per oltre un decennio, inamovibile.
Grazie al sostegno del settore imprenditoriale, allettato da un mix insolito fatto di politiche neoliberali, opportunità di investimenti e silenzio imposto ai sindacati. «Un’alleanza corporativa» l’ha ribattezzata Carlos Fernando Chamorro, militante sandinista, figlio del più noto oppositore a Somoza, e ora direttore del giornale indipendente El Confidencial . A innescare un’inedita reazione a catena, il 18 aprile, è stata una riforma della previdenza, poi ritirata. L’intervento brutale delle “turbas” contro un corteo di pensionati, a León, ha suscitato l’indignazione generale, portando in piazza migliaia di persone. Ben presto, la richiesta dei dimostranti è diventata il ritiro del duo Ortega-Murillo.
Oltre trecentosettanta morti – di cui oltre 300 dal lato dei manifestanti –, 2.100 feriti, 261 desaparecidos dopo, secondo i dati dell’Asociación pro derechos humanos, la “Primavera nicaraguense” continua. «A lungo il Paese ha vissuto una crisi latente. Di triplice livello. Politico, innanzitutto: alle elezioni del 2016, che hanno visto l’ennesima riconferma di Ortega, l’astensione è stata intorno al 70 per cento. Un segno non colto di sfiducia – spiega Óscar René Vargas, sociologo ed economista –. Dalla fine di quell’anno, l’economia ha iniziato a rallentare a causa del venir meno degli aiuti vene- zuelani: 500 milioni di dollari l’anno».
Tale “gruzzolo” a propria disposizione discrezionale, era impiegato dal governo per blandire gli imprenditori e garantire sussidi in cambio di consenso. «Briciole che non hanno risolto i problemi strutturali del Paese, dove il 42 per cento della gente è povera e il 79 per cento lavora in nero», prosegue Vargas. La somma di questi tre fattori ha creato il magma della rivolta. Proprio come i vulcani che puntellano il suo paesaggio, il Nicaragua l’ha tenuto intrappolato nelle viscere. Con la repressione di aprile, la lava è arrivata in superficie.
Distruggendo l’equilibrio del sistema Ortega. In primis, il sodalizio con gli imprenditori, passati, con un tempismo sospetto, all’opposizione, insieme agli studenti e ai contadini. A provare a fare da ponte tra i due fronti, per trovare una via d’uscita non bellica, è la Chiesa nicaraguense. La Conferenza episcopale ha accettato la richiesta di fare da testimone e garante di un difficile dialogo nazionale. E non ha rinunciato, a dispetto delle aggressioni di cui sacerdoti e vescovi sono stati vittime. Perfino il cardinale Leopoldo Brenes e il nunzio Waldemar Stanislaw Sommertag sono stati malmenati, mentre gli assalti alle chiese sono quotidiani: ieri è stata incendiata la sede della Caritas di Sébaco, vicino a Matagalpa. Ortega è ostinato: rifiuta di anticipare le elezioni e aumenta la violenza per stroncare la rivolta, nonostante le condanne internazionali.
Anche il Segretario generale Onu Antonio Guterres e 13 Paesi latinoamericani hanno criticato la brutalità della repressione. Una violenza che la Chiesa, tra le poche istituzioni indipendenti, cerca di arginare. Sostenuti dalla vicinanza e dagli appelli di papa Francesco, i pastori nicaraguensi si frappongono fisicamente tra le turbas e la gente, e offrono asilo a chi scappa dalle violenze. Anche ieri, la denuncia via Twitter di monsignor Silvio Báez, vescovo ausiliare di Managua, ha contribuito a evitare un massacro a Monimbó. Come pure l’appello del nunzio, in nome del Papa.
Quella di domani per il governo più che una celebrazione, dunque, sarà una dimostrazione di forza. Almeno in apparenza. Ora come 39 anni fa, però, i manifestanti non sono disposti a farsi «rimettere in riga». «Che si arrenda tua madre!», gridano ad ogni corteo. Frase simbolica: la pronunciò, il 15 gennaio 1970, il poeta sandinista Leonel Rugama mentre la Guardia nazionale di Somoza gli intimava la resa. Quel giorno Rugama fu ucciso. Nove anni dopo la rivoluzione vinse.