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Analisi. Israele e l'ipocrisia di un solco tra terrorismo e politica in Libano

Lucia Capuzzi, inviata a Haifa domenica 29 settembre 2024

Il premier Netanyahu nell'intervento a Palazzo di vetro

«Israele non ha scelta e ha tutto il diritto di colpire il Libano», ha tuonato venerdì Benjamin Netanyahu dal podio dell’Assemblea generale dell’Onu. Meno di un’ora dopo, un’ottantina di bombe ha sbriciolato il quartier generale di Hezbollah a Beirut. Lo sceicco Hassan Nasrallah, che si trovava all’interno dell’edificio, è stato ucciso. Il “tempismo” dell’operazione – la più imponente realizzata da Israele in undici mesi di conflitto – può essere casuale. Fonti del gabinetto di guerra di Tel Aviv sostengono che il premier avrebbe cercato di posticipare l’attacco al suo ritorno da New York. Il via libera sarebbe arrivato all’ultimo, in seguito all’apertura di «una finestra di opportunità». In ogni caso, la concomitanza tra il raid su Dahieh e l’intervento al Palazzo di Vetro ha squarciato il velo sul dramma in cui è immersa la comunità internazionale. Se per Netanyahu il raid ha costituito una «svolta storica», la gran parte dei leader mondiali – Usa in primis – non vuole una deflagrazione su vasta scala in Medio Oriente. Eppure sembra incapace di evitarla.

Il problema era emerso con forza due anni e mezzo fa, con l’invasione russa dell’Ucraina. Il 7 ottobre e l’inizio di un nuovo capitolo della contesa israelo-palestinese ha reso ancora più evidente la crisi del multilateralismo. Fino alla plateale epifania – intenzionale o no - di venerdì. I rapporti tra Tel Aviv e Onu – dal cui piano di partizione del 1947 è nato lo Stato ebraico - sono tesi da tempo in seguito all’occupazione della Cisgiordania. Già nel 2017, Netanyahu l’aveva definita «l’epicentro dell’antisemitismo globale». Ora, però, c’è stato un passo ulteriore. Nelle macerie di Dahieh, l’accusa alle Nazioni Unite di essere «una palude antisemita» si è fatta tangibile. Il portavoce militare, Daniel Hangari, insiste: Nasrallah e la sua cerchia, in quanto capi di un’organizzazione terroristica, sono «obiettivi legittimi in base al diritto internazionale». Hezbollah, però, è, al contempo, braccio armato e attore politico chiave in Libano. Un Paese già da tempo senza un governo effettivo. Lo scontro tra le varie componenti nazionali l’ha trasformato in una sorta di terra di nessuno. Nel caos, Hezbollah – e il suo sponsor, l’Iran – hanno esteso i propri tentacoli. Il maxi-bombardamento di Beirut e la morte di Nasrallah sono sufficienti a reciderli? Messo in altri termini: può essere quella militare, da sola, la via più efficace per dirimere le controversie politiche? Le Nazioni Unite sono state create proprio nella consapevolezza, maturata dopo la Seconda guerra mondiale, del contrario.

Fa riflettere quanto affermato poco dopo il raid da Antony Blinken. «La questione non è se Israele ha il diritto di affrontare le minacce che minacciano la sua esistenza: ovviamente lo ha. Il punto, però, è: qual è il modo migliore per raggiungere tale obiettivo?», ha detto il segretario di Stato che, negli ultimi undici mesi, ha fatto invano la spola tra Washington e Tel Aviv per convincere Netanyahu al negoziato su Gaza. Il premier non ha fatto accenno al piano Usa per il cessate il fuoco. Né ha incontrato Blinken a New York. Ventiquattro ore prima di atterrare negli Stati Uniti, inoltre, ha fatto saltare la tregua con Hezbollah che Washington, principale mediatore insieme alla Francia, dava per fatta. In meno di 48 ore, la speranza di Biden di chiudersi alle spalle la porta della Casa Bianca con un importante traguardo internazionale, s’è tramutata nella constatazione dell’impossibilità di evitare l’escalation. Un duro colpo a poco più di un mese dal voto in cui l’attuale vice, Kamala Harris, dovrà sfidare Donald Trump e il suo slogan “America first”, negazione del multilateralismo. A infliggerlo oltretutto è stato l’alleato israeliano. Paradossalmente l’avversario iraniano si è mostrato più aperto agli appelli Usa a «contenere il conflitto». Almeno finora. Con Dahieh tutte le linee rosse sono saltate. Con esiti imprevedibili. Israele punta ad allearsi con le potenze sunnite per isolare il fronte sciita. Già prima del raid, però, la proposta di Netanyahu a Riad di rilanciare l’intesa congelata dal 7 ottobre era caduta nel vuoto, poiché la delegazione saudita aveva abbandonato il Palazzo di Vetro in segno di protesta per l’offensiva sul Libano. In mancanza di una politica multilaterale rischia di profilarsi la logica sinistra illustrata dal premier all’Onu: «Se mi bombardi, ti bombardo».