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Israele. Cancellato il Gabinetto di guerra. Netanyahu e l'esercito sono ai ferri corti

lunedì 17 giugno 2024

Con bandiere e cartelli, gli israeliani si preparano a manifestare contro il governo. Ma non gli ultra-ortodossi

Il Gabinetto di guerra non c’è più. Più che un annuncio quello di ieri del premier Benjamin Netanyahu è una certificazione dell’esistente. L’organismo creato ad ottobre per assumere la guida della «guerra lunga e difficile» su Gaza, era nel limbo da una settimana esatta. Da quando, cioè, il 9 giugno, il centrista Benny Gantz se n’era andato sbattendo la porta di fronte alla mancanza di un orizzonte politico e strategico. L’aveva seguito l’altro esponente esterno al governo, Gadi Eizenkot. La “cabina di regia” congiunta tra la maggioranza e le forze più vicine dell’opposizione aveva perso la propria funzione. All’interno, restavano, oltre a Netanyahu, il fedelissimo Ron Dermer, il ministro della Difesa, Yoav Gallant, il leader del partito ultra-ortodosso sefardita Shas, Arieh Deri. Gli estremisti Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir si erano fatti avanti e proposti per colmare le poltrone vuote. Il che avrebbe comportato una sterzata a destra del Gabinetto, mandando su tutte le furie Washington. I rapporti tra Netanyahu e la Casa Bianca sono già tesi. Non è un segreto che Joe Biden incolpi il duo ultrà Smotrich-Ben-Gvir della resistenza israeliana di fronte alle proposte di cessate il fuoco. Negli ultimi mesi lo ha detto esplicitamente, arrivando anche a citare Ben-Gvir per nome.

Per evitare rifiuti e spiegazioni imbarazzanti, Netanyahu ha sciolto l’organismo, ormai inutile. A prendere le decisioni saranno Netanyahu e Gallant, in riunioni ad hoc con diversi ministri. In questo modo, diventa ancora più nebulosa la catena di responsabilità del conflitto nel momento in cui la spaccatura tra l’esecutivo e l’esercito, presente sottotraccia fin dal massacro del 7 ottobre, è emersa in tutta la sua drammaticità. Domenica, le forze armate israeliane – Tsahal, dall’acronimo – hanno annunciato una pausa umanitaria quotidiana di undici ore tra il valico di Kerem Shalom e Salah al-Din road, per rendere meno complesse e pericolose l’entrata e la distribuzione degli aiuti. Il premier è andato su tutte le furie, non solo per il contenuto della misura – definito «inaccettabile» –, ma soprattutto perché sostiene di essere stato messo di fronte al fatto compiuto. Affermazione quest’ultima smentita dai militari. Alla fine, però, a far rientrare la polemica, la precisazione dell’esercito che la “pausa” non implicherà mutamenti nell’operazione a Rafah. In effetti, lo stesso direttore dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), Philippe Lazzarini, ha confermato che i raid continuano sulla città più meridionale della Striscia. A 43 giorni dall’inizio degli attacchi, degli 1,4 milioni di sfollati ne sono rimasti non più di 65mila. Gli altri si sono spostati nella fascia costiera o centrale ma i combattimenti li hanno raggiunti. Nel frattempo, l’esercito sostiene di avere smantellato due dei quattro battaglio di Hamas nascosti a Rafah e di aver dimezzato le forze degli altri due. I costi umani del conflitto diventano, però, sempre più insostenibili agli occhi dell’opinione pubblica israeliana. Domenica la galassia di gruppi ostili al governo ha proclamato la “Settimana del disordine” per chiedere la convocazione di elezioni anticipate e il raggiungimento di un accordo che riporti a casa i 124 ostaggi ancora prigionieri nella Striscia.

Almeno quelli ancora in vita. Secondo il Jewish people policy institute, la maggior parte degli israeliani – oltre il 60 per cento – sono favorevoli al piano Biden per il cessate il fuoco. Ieri, decine di migliaia hanno manifestato di fronte alla Knesset e domani partirà una carovana di tre giorni verso il Sud delloStato ebraico. «Il tempo di questo governo è finito», intonavano i dimostranti a Gerusalemme. Da più parti, in Israele, cresce la preoccupazione per un conflitto di cui non si vede la fine e, anzi, si teme l’allargamento. La tensione a nord è cresciuta nelle ultime settimane. Tanto da spingere Washington a inviare, ieri, a Gerusalemme, l’inviato speciale Amos Hochstein che ha discusso con Netanyahu proprio la spinosa questione degli scontri con Hezbollah lungo il confine libanese. La presenza del rappresentante statunitense non ha fermato, però, gli scambi di colpi tra i due lati della frontiera. Anzi, proprio mentre Hochstein veniva ricevuto nel palazzo del governo, veniva confermata l’uccisione, da parte di un raid israeliano, di un comandante della milizia sciita nella zona di Tiro