Mondo

La guerra. Netanyahu dilata i tempi delle mediazioni. E Rafah ora teme il raid

Anna Maria Brogi giovedì 8 febbraio 2024

L'esodo da Rafah

Ora o mai più. Potrebbe essere l’ultima chance per un cessate il fuoco a Gaza la trattativa in corso che, sia pure su tavoli separati per Hamas e Israele, non si è interrotta. Nonostante le dichiarazioni del premier Benjamin Netanyahu, che l’altra sera è tornato a parlare di «vittoria assoluta», suonino come una pietra tombale sulle trattative e sugli ostaggi, si intensifica il pressing arabo-americano per fermare la guerra. Al Cairo alti rappresentati di Hamas arrivati ieri da Doha discutono con i servizi egiziani, guidati da Abbas Kamel, i piani per il dopoguerra. Non è stata però confermata l’annunciata presenza del capo politico Ismail Haniyeh

Il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, incontrando ieri a Tel Aviv i familiari dei rapiti americani avrebbe espresso un cauto ottimismo. Parte in tour anche il re di Giordania, Abullah II, che lunedì sarà alla Casa Bianca per poi passare in Canada, Francia e Germania. Con Biden discuteranno, informa Washington, «degli sforzi degli Stati Uniti per sostenere il popolo palestinese, anche attraverso una maggiore assistenza umanitaria a Gaza, e di una visione per una pace duratura che includa una soluzione con due Stati con la garanzia della sicurezza di Israele». Nel mondo musulmano c’è fretta di chiudere, affinché la tregua entri in vigore prima del 10 marzo, quando al tramonto comincerà il mese di Ramadan, il digiuno islamico.

Dichiarazioni di Netanyahu a parte, anche in Israele sale l’impazienza. Non solo da parte dei familiari dei 136 ostaggi e dell’opposizione. Il ministro Gadi Eisenkot, ex capo di Stato maggiore che in guerra ha perso un figlio, ha denunciato in una riunione del partito Unità nazionale che il premier «non si consulta». «Con il primo ministro che procrastina e non prende decisioni su questioni importanti, Hamas sta ripristinando alcune delle sue capacità, tornando nel nord della Striscia di Gaza e assumendo il controllo degli aiuti umanitari» ha detto Eisenkot, entrato nel governo insieme al centrista Benny Gantz all’indomani del 7 ottobre.

Dissonanti rispetto ai toni pubblici del premier anche le parole di sei alti funzionari e consiglieri israeliani che alla statunitense Nbc News hanno rivelato che lo Stato ebraico è sempre stato disposto a concedere l’esilio al leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, in cambio degli ostaggi e della fine del governo di Hamas. La proposta non è mai stata oggetto di trattative in quanto considerata da Hamas irricevibile. «Non ci importa se Sinwar se ne andrà, purché tutti gli ostaggi vengano rilasciati», ha detto una fonte ricordando il precedente di Yasser Arafat che il 30 agosto 1982 lasciò Beirut per l’esilio.

Sono giorni cruciali anche per l’altra trattativa, quella per evitare l’escalation con Hezbollah al confine nord con il Libano. In base a quanto riporta il Washington Post, gli Stati Uniti si sono opposti ripetutamente al piano di Israele di lanciare un’operazione militare su larga scala contro Hezbollah. Nei prossimi giorni è nuovamente atteso sia in Israele che in Libano l’inviato speciale americano Amos Hochstein.

Sul terreno proseguono i combattimenti, in particolare a sud e a ovest di Gaza City e vicino all’ospedale Nasser di Khan Yunis. L’esercito informa di aver rilasciato 71 dei palestinesi arrestati nell’operazione di terra, dei quali si ignora il numero complessivo. In un raid su Rafah, l’altra notte, sarebbero state uccise 14 persone tra cui 5 minori. Il bilancio delle vittime sarebbe salito a 27.840 morti e 67.317 feriti, stando al ministero della Sanità controllato da Hamas. Ma soprattutto spaventa l’annuncio di Netanyahu, l’altro giorno, che le forze israeliane sono «pronte a combattere» a Rafah. Gli Usa hanno tagliato corto: così si rischia un «disastro». «Prendere di mira quest’area della Striscia, piena di civili, comporta un pericolo» denuncia, a sua volta, un portavoce del ministero degli Esteri del Cairo. «Abbiamo alle spalle il filo spinato del confine egiziano e davanti agli occhi il Mediterraneo. Dove dovremmo andare?» si chiede Emad, 55 anni e padre di 6 figli, sfollato a Rafah, sentito dalla Reuters tramite un’app di messaggistica. «Non c’è un posto dove andare. Più di un milione di persone si sta facendo oggi questa domanda».