L'allarme. L'ombra delle neo-dittature si allunga sull'America centrale
Il presidente salvadoregno Nayib Bukele
Come muoiono le democrazie? Non c’è una risposta univoca all’interrogativo posto nel famoso saggio dei due politologi di Harvard Steven Levitsky e Daniel Ziblatt. Ogni Paese del pianeta ha, o ha avuto, la sua peculiare deriva autoritaria. L’America centrale del ventunesimo secolo ha scelto un percorso “condiviso”. Nelle diverse nazioni della regione, le democrazie muoiono a causa del voto. Il caso-scuola è il Nicaragua dove l’attuale presidente Daniel Ortega è tornato al potere nel 2006, a oltre un quarto di secolo di distanza dal primo mandato, per via elettorale. Deciso a restarvi a tempo indeterminato, però, dall’inizio del mandato ha eliminato progressivamente i contrappesi istituzionali fino ad annientarli. Nel 2014, con la modifica della Costituzione da parte di un Parlamento “addomesticato”, si è garantito la riconferma illimitata. La repressione feroce del dissenso, con la chiusura di ogni realtà indipendente e l’incarcerazione in massa di oppositori reali o potenziali, incluso un vescovo, Rolando Álvarez, è arrivata in seguito.
Il metodo-Ortega ha fatto scuola. Nel vicino El Salvador, però, l’allievo – il giovane presidente Nayib Bukele – ha superato il maestro. Quest’ultimo non ha dovuto nemmeno riformare la Carta che, all’articolo 152, gli vieta la rielezione al termine dell’incarico. Si è limitato a “interpretarla”. O, meglio, a farla interpretare a una Corte costituzionale dalla quale aveva rimosso i giudici scomodi. Domenica scorsa, così, Bukele ha presentato la propria ri-candidatura alla consultazione del 2024. E gran parte dell’opinione pubblica salvadoregna approva la decisione, a giudicare dall’indice di popolarità – oltre il 70 per cento – su cui conta il leader. Merito del pugno di ferro con cui ha ottenuto la drastica riduzione della ferocia delle “maras”, le bande che per decenni hanno tenuto in ostaggio i quartieri popolari della nazione centroamericana. La loro brutalità aveva portato, nel decennio scorso, in cima alla classifica dei Paesi più violenti del mondo, con 12 omicidi al giorno. Ora sono meno di due. Lo spartiacque è stato lo stato di emergenza, proclamato il il 27 marzo 2022, e mai revocato. Da allora sono state arrestate oltre 68mila persone, tra cui 2mila minori. Detenzioni spesso indiscriminate, basate su sospetti e confermate in udienze con 500 accusati alla volta, nelle quali la difesa ha massimo quattro minuti per parlare. Dietro le sbarre – come hanno denunciato più volte le organizzazioni indipendenti e la Chiesa –, gli abusi sono all’ordine del giorno. Secondo dati ufficiali, già oltre 130 prigionieri sono morti in cella. Non c’è, però, solo la questione – cruciale – dei diritti umani. Come la storia centroamericana ha dimostrato, la tolleranza zero funziona nel breve periodo mentre nel medio e lungo termine si rivela insostenibile e controproducente.
Poco efficace per garantire la sicurezza, però, tale strategia è molto remunerativa alle urne. Non a caso, la presidente progressista dell’Honduras, Xiomara Castro, si è affrettata a dichiarare lo stato di emergenza il 6 dicembre scorso. E, dall’Argentina al Perù, gli emuli di Bukele si moltiplicano. Il più imminente banco di prova della tenuta democratica del Centroamerica è, tuttavia, il Guatemala. Bernardo Arevalo, outsider conosciuto per la sua lotta alla corruzione in uno Paesi dove maggiore è la commistione tra politica, militari e crimine, è riuscito a passare il primo turno del 25 giugno. Il 20 agosto sfiderà Sandra Torres, esponente dell’élite tradizionale, al ballottaggio del 20 agosto. O, meglio, dovrebbe farlo. Ieri, il capo della Procura speciale contro l’impunità, Rafael Curruchiche, ha sospeso il suo partito per presunte irregolarità nella raccolta delle firme. Una decisione criticata in patria e all’estero, soprattutto dagliUsa, dove Curruchiche è stato sanzionato per aver ostacolato le indagini di corruzione. Il dipartimento di Stato ha immediatamente esortato il Paese a «rispettare la volontà popolare». Arevalo sarebbe il quarto candidato escluso dalla corsa con opachi pretesti. La sua partecipazione al voto potrebbe segnare, invece, l’inizio di un’inversione di tendenza. Non solo in Guatemala