Messico. Nelle terre dei narcos abbandonate anche dai medici
A lezione di igiene dagli operatori Msf nella Tierra Caliente (foto Msf)
Gli scheletri color bronzo delle pannocchie sono adagiati sui tetti. Avevano messo le spighe «ad asciugare ». In attesa di sgranarle all’inizio della primavera. Nessuno, però, è venuto a raccogliere i chicchi. E il mais s’è bruciato al sole. Come i campi. Su cui razzolano, solitarie, le galline. Sono loro gli unici abitanti di San Felipe del Ocote. Donne, uomini, bambini sono scappati via, in fretta e furia, il 5 gennaio scorso. Alcuni a piedi. Altri in moto. I più fortunati, sul trattore. Tutti si sono diretti ad Apaxtla, la capitale municipale. Senza bagagli, con i soli vestiti che avevano indosso e l’urgenza di salvarsi la vita. Una settimana prima, la comunità aveva infranto la legge della Sierra del Guerrero. I 600 residenti si erano ribellati ai narcos, la vera autorità della regione. Sono loro a decidere quando i collegamenti con l’esterno funzionano, chi può entrare nel villaggio, quali ragazzini devono essere reclutati, quanto deve pagare ciascuno per la “protezione”. Per aver “trasgredito”, gli abitanti di San Felipe del Ocote sono diventati profughi nel loro stesso Paese. Sfollati interni, come altri 330mila messicani in dieci anni.
Un quarto di loro proviene dal Guerrero. Ora, i 600 di San Felipe del Ocote scontano la loro pena dormendo, da più cinque mesi, in una scuola di Apaxtla. Per l’atteso ricollocamento potrebbero volercene altrettanti o molti di più. Abel, 20 anni, non ha intenzione di aspettare: «Non ce la faccio più. Vado negli Usa. Preferisco rischiare di morire nel viaggio che farmi ammazzare qui. I narcos hanno già cercato di arruolarmi. Il rifiuto è una condanna capitale». Sono i profughi della violenza i protagonisti del flusso messicano verso “el Norte”, ripreso con forza dopo anni di stallo. Il Guerrero, con sei omicidi al giorno e una povertà cronica nonostante l’abbondanza di coltivazioni di papavero da oppio, è uno degli epicentri dell’esodo. I primi a partire sono stati quelli con un titolo di studio, dunque insegnanti e, soprattutto, medici. Chi resta nei minuscoli paesini dimenticati della Tierra Caliente (come si chiama questa porzione di territorio) deve ormai fronteggiare una vera e propria emergenza sanitaria. Come accade nei teatri bellici. Solo che qui, formalmente, la guerra non c’è.
«I dottori delle città non vogliono venire. Hanno paura della violenza. Sono quattro anni che siamo senza. Meno male che almeno Medici senza frontiere (Msf) non ci ha abbandonato», racconta Bruno, di Heliodoro del Castillo. Sono le cliniche mobili dell’organizzazione premio Nobel a portare cure e farmaci nella Tierra Caliente, nel nord e nel centro del Guerrero, dove gli altri dottori non vogliono andare e undici ambulatori hanno chiuso i battenti. I pochi rimasti sono tenuti in piedi da infermiere di buona volontà, per le quali la pratica è indispensabile per entrare nel servizio pubblico. «Quando si assentano per qualunque ragione, non sappiamo a chi rivolgerci.
Ora che i narcos hanno deciso si sospendere i collegamenti tra la comunità e l’esterno, se qualcuno si sente male di notte, muore – prosegue Bruno –. Lo abbiamo detto alle autorità ma non sanno che farci. Ci hanno chiesto di portare noi un medico, di provare a convincerlo…». «La violenza isola le comunità, impedendo agli abitanti di accedere alle cure di base. In tale contesto, le malattie croniche, come il diabete e l’ipertensione, degenerano con facilità», afferma Javier López de la Osa, medico di Msf. La mortalità materna, inoltre, sta crescendo per l’assenza di controlli durante la gravidanza e di assistenza nel parto.
Al contempo, la ferocia bellica fa aumentare i disturbi mentali – sottolinea la psicologa di Msf, Ivana Cervín Marín –, mentre i malati psichici sono completamente in carico alle famiglie. «Ogni volta che ci vedono, ci chiedono farmaci di scorta. Sono terrorizzati all’idea di restare senza – conclude López de la Osa –. Ma soprattutto hanno paura che non torniamo. La nostra sola presenza li rasserena. Ci ripetono mille volte: “Grazie per non averci dimenticati”».