«Nakonets, vernut’sya domoy! A casa, finalmente si torna a casa! ». Quando l’ultima nota dell’inno russo si è consumata, quando tutte le bandiere bianche rosse e blu sono state riposte, quando si è spento l’ultimo slogan «Ro-ssi-ya!, Ro-ssi-ya!», quando l’ultima bottiglia di birra è rotolata tintinnando ai bordi del marciapiede, quando l’ultimo degli ucraini di Crimea ebbro di gioia e di esaltazione si è incamminato verso casa e il vento gelido della Siberia ha spazzato una Piazza Lenin finalmente deserta, una notte polare silenziosa e carica di una misteriosa inquietudine è scesa sulla città. Dopo sessant’anni la penisola improvvidamente regalata da Nikita Kruschev all’Ucraina tornava alla Madre Russia, riabilitata dopo più di un mezzo secolo in cui Kiev aveva preferito relegare la Repubblica autonoma a dependance coloniale, una sorta di Cirenaica sarmatica cui promettere senza mai concedere e della quale mai fidarsi davvero. Domenica notte la gente nelle piazze piangeva. Piangeva e danzava, piangeva e rideva in una folle disputa fra la commozione e l’orgoglio intrecciando almeno due anime: quella della nostalgia sovietica che traboccava intrattenibile dal cuore dei più anziani, e quella dei giovani, stupefatti e grati al nuovo zar, eccitati come a un derby trionfale, sedotti dalla smagliante novità, intossicati e vellicati dalla promessa di un riscatto economico, di una paga raddoppiata, di una pensione decente, di un costo dell’energia dimezzato. Tutto questo l’abilissimo Vladimir Putin lo aveva messo in conto. Il trionfo abissale del 96,77% dei suffragi (sicuri che non vi siano stati brogli?) gli dà ragione, le folle in festa a Sebastopoli, Yalta, Sinferopoli lo confermano. Il capolavoro di Putin è stato quello di inscenare un referendum basato sull’intimidazione e la propaganda, facendo invadere un lembo di Ucraina e reclamando un’annessione in spregio ad ogni aspetto del diritto internazionale e a trattati dalla stessa Russia sottoscritti. Quasi a dire che uomini e donne della Crimea irredenta e filo-russa desiderassero ardentemente farsi ingannare e mettersi nelle sue mani.E non importa se la gelida notte polare, una notte di arrogante luna piena, era già una realtà. Già dal mattino dopo, per tutti, per quel quarto di elettori che non sono andati a votare ma anche per quelli che hanno scelto l’abbraccio fraterno di Mosca, tutto – in una sola notte – era già cambiato. Le facce dei “volontari”, per cominciare: via i cosacchi, via la milizia incappucciata, ora per le strade circolano come araldi di una nemesi troppo invocata falangi di uomini insaccati in armature di kevlar, giganteschi scarafaggi a due zampe, silenziosi e minacciosi insieme. E tra breve cambierà l’ora, uniformandosi al fuso orario di Mosca e il rublo affiancherà la “grivnia” ucraina per seppellirla definitivamente dal gennaio 2016, l’esercito di Kiev nella penisola verrà sciolto, i beni di Stato nazionalizzati a cominciare dalle due aziende energetiche, la Chornomornaftohaz e la Ukrtransgaz. E poi il fisco, il codice penale, la legge bancaria... Del resto un’annessione, avrebbe detto Mao Zedong, non è un pranzo di gala.«Ma le sembra normale depositare una scheda aperta in un’urna trasparente in un seggio intimidito da manipoli di uomini incappucciati al suono martellante di inni sovietici mentre sventolano bandiere della Federazione Russa?», dice un signore infuriato, uno dei pochi che apertamente dissentono. Nel paradosso di un’invasione non dichiarata ma convalidata da un referendum sostanzialmente imposto (a dispetto di certe sciocchezze pronunciate da alcuni osservatori venuti a monitorare il voto, sulle quali svetta quella del vecchio Mikahil Gorbaciov, che nega perfino l’esistenza dei miliziani), l’autoconsegna della Crimea nelle braccia della Russia è avvenuta in una sostanziale calma diffusa, senza veri incidenti, come se eventi più grandi e indomabili dell’umore popolare, dell’iraconda impotenza di Kiev e dei suoi gruppuscoli nazionalisti muovessero le ruote della Storia, cui non a caso si richiama il premier della Repubblica autonoma Serghiei Aksionov, assegnando al voto di domenica il crisma di una scelta epocale. Quale a suo modo di fatto è: perfino i tatari (grazie verosimilmente a un accordo stipulato nelle scorse ore a Mosca) hanno finito per votare sì. «Non tutti – puntualizza Nara, che mi fa da interprete – io sono tatara e non sono andata a votare...». Sulle tv russe, le uniche ormai visibili in Crimea, passano da giorni film e documentari sul nazismo e i collaborazionisti ucraini, indicati come l’impero del male. Ciò che gli estasiati cittadini di Crimea ancora non sanno è che la loro piccola repubblica confiscata da Putin resta tuttora – fino al 21 marzo, per lo meno – una pedina di scambio: per mitigare o neutralizzare l’imminente accordo di partenariato fra Kiev e la Ue, per smussare la spigolosità dei rapporti tra Mosca e Washington, per recuperare in parte la già compromessa Unione euroasiatica. «Il peggio – mormora un deputato dagli occhi di ghiaccio nel cortile della Rada, il Parlamento di Sinferopoli – sarebbe rimanere a mezza via: né annessi né indipendenti». Servisse ai suoi scopi, Putin non avrebbe alcuno scrupolo a lasciarli lì in mezzo al guado, dopo aver finto di liberarli, nella notte polare delle loro illusioni.