Africa. Nella «Primavera» tradita da Saïed la Tunisia verso un voto senza illusioni
Il primo ministro tunisino Ahmed Hachani con Giorgia Meloni al G7 di Borgo Egnazia, in Puglia (14 giugno)
Si avvicina il terzo anniversario del “colpo di Stato istituzionale” – o qualsiasi definizione si voglia dare a quel salto oltre lo steccato costituzionale avvenuto il 25 luglio del 2021– con cui il presidente tunisino Kaïs Saïed ha consegnato agli archivi l’unico esperimento democratico nordafricano. Un allungo maturato in un clima di profonda crisi socio-economica aggravata dalla pandemia, di impotenza e ignavia delle forze di maggioranza e indifferenza della comunità internazionale. Dopo il licenziamento del primo ministro Hichem Mechichi e del governo, il congelamento del Parlamento, l’assunzione del controllo della magistratura, altri drammatici gradini sono stati saliti dall’ex docente di diritto costituzionale, con il favore dell’esercito.
Il referendum del 2022 ha avallato le modifiche costituzionali che hanno consegnato il potere esecutivo al presidente, sottomesso a lui il ruolo del primo ministro, ridotto le prerogative parlamentari e dato un’impronta più confessionale al testo fondante. Nel frattempo, la stretta nei confronti del discorso plurale è andata intensificandosi: non solo gli avversari politici, ma anche i protagonisti della vita civile (avvocati e magistrati, giornalisti, attivisti, accademici ed intellettuali di spicco), qualora non allineati oppure critici, sono stati gradualmente ridotti al silenzio.
A tale fine, il decreto legge 54, in vigore da quasi due anni a colpi di continui rinnovi, si è rivelato uno strumento efficace: nel mirino chiunque «si serva consapevolmente di reti di informazione e comunicazione allo scopo di produrre, diffondere, trasmettere o redigere false notizie, falsi dati, voci, documenti falsi o falsificati o falsamente attribuiti ad altri con lo scopo di attentare ai diritti altrui o di pregiudicare la sicurezza pubblica e la difesa nazionale, o di seminare il terrore nella popolazione».
Una sessantina, secondo le principali organizzazioni per la difesa dei diritti umani tunisine, i giornalisti in prigione. Le loro pene detentive possono arrivare a cinque anni. O anche raddoppiare nel caso di funzionari pubblici. In vista delle elezioni presidenziali dell’autunno, la situazione pare destinata a peggiorare, come già accaduto in passato a ridosso del voto: prima delle legislative del dicembre 2022, ai candidati era stato imposto di non parlare con la stampa straniera e a membri del governo e vertici ministeriali di esprimersi con qualsiasi media solo dopo autorizzazione presidenziale.
Non accenna a diminuire, intanto, la pressione sulle opposizioni: è in carcere dall’aprile 2023 il leader del partito islamista Ennahda, Rached Ghannouchi, con accuse di cospirazione e incitamento alla guerra civile. Su di lui pende una condanna a tre anni. Per processare altre figure di spicco, è intervenuta la magistratura militare. Il Fronte di salvezza nazionale, che riunisce i principali partiti e movimenti anti-Saïed, ha già annunciato l’intenzione di boicottare il voto, per il quale si prevede un’astensione di massa. Più per disaffezione nei confronti della politica, però, che per reale mancanza di fiducia nell’attuale presidente.
La rete di centri di ricerca “Arab barometer”, con un recente sondaggio pubblicato in aprile, permette di fare luce su opinioni, preoccupazioni e speranze della società tunisina. Andiamo per gradi. Dodici anni dopo la Primavera araba, otto cittadini su dieci ancora ritengono la democrazia la loro forma politica preferita, ma il 73 per cento pensa che “l’economia è debole in democrazia” e la medesima percentuale considera il sistema democratico “incapace di prendere decisioni”. Così si spiega un 44 per cento favorevole a «un’autorità forte » e un 55 contrario a un sistema parlamentare pluralistico. Non stupisce dunque che il presidente goda della stima del 70 per cento degli intervistati. Certo, in calo rispetto al 2019, quando superava l’80, ma ancora in sella. Detto ciò, solo il 24 per cento si dice partecipe della vita politica e intenzionato a votare. Significativo anche il sondaggio realizzato dal Pew Research Center nel periodo 22 aprile - 21 maggio 2024 mediante interviste dirette a cittadine e cittadine maggiorenni.
L’indagine ha profilo più economico: l’ 86 per cento del campione, rappresentativo dell’intera popolazione, ha una percezione negativa del contesto economico- finanziario in cui versa il Paese. Di questi, 4 cittadini su 10 ritengono lo scenario «molto negativo». Solo il restante 14 per cento ritiene che le cose vadano abbastanza bene o comunque che stiano migliorando. Finora il “professore” è stato abile nell’attribuire tutte le responsabilità della crisi a nemici interni ed esterni, complotti e tempeste internazionali, persino agli immigrati africani che partono dalle coste verso l‘Italia: a partire dal discorso del marzo 2023, incentrato su «orde di migranti subsahariani » dediti alla « violenza» con il proposito di alcune organizzazioni criminali di «cambiare la composizione demografica» della Tunisia, l’ombra lunga del razzismo si è allungata sul Palazzo di Cartagine.
Cosa che non ha impedito a Bruxelles e Roma (con la visita in prima persone di Ursula Von del Leyen e Giorgia Meloni) di prendere accordi per rallentare e gestire i flussi migratori. Ma la storia del suo Paese insegna: a smuovere i suoi connazionali, nel dicembre 2010, fu la mancanza di khobz, il pane. Da lì tutto cominciò e potrebbe ripartire.