Il conflitto in Etiopia. Nel Tigrai ora anche i profughi nel mirino
Rifugiati etiopi
La guerra nel Tigrai non è finita, nonostante la conquista di Macallè sabato da parte dell’esercito federale etiopico e l’annuncio del primo ministro Abiy Ahmed della conclusione delle operazioni militari iniziate il 4 novembre scorso. Si aggrava la situazione dei quasi 100mila rifugiati eritrei, abbandonati dalle agenzie umanitarie dall’inizio del conflitto e considerati a rischio, e le Nazioni Unite chiedono all’Etiopia di aprire un corridoio umanitario per accedere ai 4 campi profughi che li ospitano.
Dopo quasi quattro settimane di conflitto non è chiara la situazione nella regione settentrionale dell’Etiopia, isolata da un blackout informativo. I leader del Fronte di liberazione popolare del Tigrai, il Tplf, hanno abbandonato Macallè prima della caduta, per non mettere a rischio i civili secondo la loro versione, e si troverebbero ad ovest del capoluogo. Il presidente regionale Debretsion Gebremichael ha annunciato all’agenzia Reuters che la guerra contro l’esercito di Addis Abeba, le milizie Amara e l’Eritrea – ritenuta cobelligerante dai tigrini che in più riprese, anche sabato scorso, l’hanno colpita con i missili – continua «su ogni fronte». La tv satellitare tigrina ha inoltre affermato che Axum sarebbe stata ripresa dalle milizie del Tplf e ha mostrato le immagini di un jet dell’aviazione militare eritrea che sarebbe stato abbattuto.
Ma il governo etiopico ha smentito. In Parlamento Abiy, il quale ha ricevuto la telefonata del segretario di Stato Usa Pompeo che gli ha chiesto con forza di cessare i combattimenti, ha ribadito che la caccia ai leader del Tplf non si ferma, che l’esercito conosce le loro posizioni e che finora sono stati risparmiati per non uccidere le famiglie. Il premier ha aggiunto che l’esercito federale non ha colpito i civili durante l’offensiva su Macallè e che la decisione di attaccare «la cricca» del Tplf, definiti terroristi, è stata presa perché avrebbero messo nel mirino lui e gli altri leader riformisti del Paese per ucciderli e riprendere il potere ad Addis Abeba, lasciato allo stesso Abyi nel 2018 dopo oltre 25 anni.
Conferme indirette sulla violenza della battaglia vengono da un raro report dal capoluogo tigrino della Croce Rossa Internazionale, la quale afferma che domenica la situazione era calma, ma l’ospedale cittadino era in difficoltà per il numero elevato di persone da soccorrere (l’80% per ferite e forti traumi) e la mancanza di medicinali come antibiotici e disinfettanti. Inoltre secondo la Croce Rossa mancano i «body bags», i sacchi, per i troppi cadaveri. Anche per l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati Filippo Grandi, in visita nei giorni scorsi nei campi profughi allestiti nel Sudan orientale per accogliere oltre 45mila etiopi in fuga, ritiene che il conflitto non sia finito. In questo momento la preoccupazione principale delle Nazioni Unite sono i quasi 100mila rifugiati eritrei ospitati in quattro campi profughi nel Tigrai attualmente incustoditi e isolati.
Come confermato da fonti locali si trovano sulla linea del fuoco e non hanno cibo e acqua. In particolare ad Adi Harish sono state uccise 2 persone e 5 gravemente ferite. Inoltre alcune organizzazioni della diaspora eritrea in Europa hanno denunciato che nel campo profughi di Shimelba, vicino al confine con l’Eritrea, che sarebbe passato sotto il controllo dell’esercito federale, migliaia di rifugiati eritrei sarebbero stati presi e caricati a forza sui camion dalle truppe di Asmara e riportati per punizione nello Stato-caserma dal quale erano fuggiti. Per Grandi, il quale ha chiesto all’Etiopia di occuparsi con urgenza della questione, «se fosse confermato sarebbe una grave violazione del diritto internazionale umanitario». In mancanza di informazioni precise, l’unica via per portare aiuto ai rifugiati e alle migliaia di etiopi in fuga dal conflitto è quella avanzata dallo stesso Grandi, aprire subito corridoi umanitari nel Tigrai. Si attende la risposta di Abiy, Nobel per la pace 2019.