Ucraina. La vendetta di Mosca contro il sì alle armi Nato in Russia
Sarebbero russe le responsabilità dell'incendio della foresta di Kharkiv
La rappresaglia è scattata di notte, come sempre quando Mosca vuole inviare un messaggio. Cento tra missili e droni su tutta l’Ucraina, per dire che la risposta all’uso delle armi Nato in territorio russo sarà senza sconti. E mentre minaccia di ricorrere a misteriosi arsenali di ultima generazione, sul campo di battaglia ricorre a mezzi arcaici.Ettari di bosco stanno bruciando nella regione di Kharkiv. «Un’area di oltre 3.700 ettari di foreste è ricoperta dal fuoco. La maggior parte degli incendi – riferisce il Servizio statale di emergenza – sono stati causati dai russi. Finora è stato possibile localizzare sei incendi appiccati su nove in corso».
Il ministero della Difesa russo ha dichiarato di avere inflitto una «rappresaglia con armi di alta precisione» alle strutture energetiche dell’Ucraina, «che operano per il suo complesso militare industriale e di avere colpito «depositi di armi occidentali». Tra questi uno degli aeroporti militari dove sono attesi i caccia F-16, informazione che Kiev smentisce lasciando intendere che gli aerei da combattimento forniti dai Paesi Nato utilizzeranno invece basi sotterranee e piste improvvisate. La difesa aerea ucraina, secondo fonti ufficiali di Kiev, ha abbattuto 35 dei 53 missili russi e 46 dei 47 droni. Da marzo, la Russia ha intensificato i bombardamenti delle infrastrutture elettriche ucraine, mettendo fuori uso la maggior parte della produzione di energia termica e idroelettrica, causando blackout e spingendo le importazioni di elettricità a livelli record. Anche “Dtek”, la più grande società privata ucraina per la distribuzione di elettricità, ha confermato che sono state colpite due centrali termiche che risultano «seriamente danneggiate».
La narrazione ufficiale del Cremlino dopo due anni di aggressione sui centri urbani continua ad escludere di aver colpito obiettivi civili. E neanche davanti all’evidenza dal Cremlino arrivano neanche timide ammissioni. Città di nuovo ridotte al buio (da ieri alle 18 sono previsti blackout di sei ore al giorno), e acqua corrente razionata in molte regioni perché le pompe di pescaggio nei fiumi sono a secco di energia. Dopo quello del soldato di prima linea, in questi giorni sono altri due i mestieri più pericolosi in Ucraina: il pompiere e il manovratore di escavatori. I primi perché devono domare le fiamme appiccate nella foresta di Kharkiv dalle bombe incendiarie russe. Si gettano in avanscoperta senza armi in spalla, sperando che dietro alla coltre non ci siano trappole esplosive né il mirino dei mitragliatori. Alle loro spalle, gli operai delle ditte di edilizia civile chiamati a costruire le fortificazioni. Affondano le pale nei terreni dove si è combattuto e ancora giacciono ordigni e veleni, mentre i grossi caterpillar tentano di tracciare solchi abbastanza profondi da rallentare l’avanzata dei carri armati di Mosca. Che succeda due anni dopo la guerra, in tanti suscita domande e delusione. «I contratti per la fornitura di legname per le fortificazioni nella regione di Kharkiv, per un valore di 366 milioni di grivne (oltre 8 milioni di euro), destano notevoli preoccupazioni», dice Martyna Bohuslavets, responsabile del Centro anticorruzione Mezha. In un report ancora da aggiornare viene osservato che dei contratti per la fornitura di legname per un valore di oltre 400 milioni di grivne (oltre 9 milioni di euro), solo 100 milioni (2 milioni di euro) sono stati firmati con imprese forestali. Il resto dell’approvvigionamento risulterebbe affidato a sei società dai contorni poco chiari, alcune delle quali nate non molti mesi fa.
«Che si tratti di operazioni poco chiare oppure di appalti legali e trasparenti, poco cambia per noi che siamo a combattere – lamenta Ruslan, che nel quartiere più bombardato di Kharkiv ci spiega come opera la sua unità di volontari che pilotano droni fin sulle prime linee russe –: per spiare o per colpire, a seconda degli ordini». Appassionato di caffè napoletano, Ruslan si lamenta apertamente mentre sorseggia una tazzina: «Cosa aspettavano a costruire le fortificazioni? Il confine russo è a due passi, e i “grandi strateghi” delle forze armate e l’amministrazione regionale attendevano forse che Mosca venisse a prendersi Kharkiv? Noi lo stiamo impedendo, ma a quale prezzo?».
È la riprova di un malumore diffuso con cui l’amministrazione Zelensky sta facendo i conti. I continui licenziamenti di funzionari pubblici e le indagini per corruzione rivelano un malcostume endemico. Quando a Ruslan domandiamo se non sia meglio, a questo punto, negoziare con Mosca cedendo pezzi di territorio anziché rischiare di concedere altro terreno, la risposta è quasi irritata: «Putin va combattuto, non va assecondato».
A Kherson, tagliata a metà dal Dnipro che volge verso il delta sulla penisola di Crimea, il posto più pericoloso è “la riva dei cecchini”. Gli sniper russi possono sfondare con un solo colpo i giubbetti antiproiettile sparando da più di un chilometro. Si può scampare al proiettile da 14 centimetri, ma non alle schegge dei razzi Grad e al tiro del mortaio. Olexander Korniakov, per tutti Sasha, è il fotogiornalista che i russi volevano gettare durante l’occupazione nelle camere delle torture in centro città, dove nei mesi di occupazione tutti potevano sentire le urla dei disgraziati di cui rimane sulle pareti il sangue rappreso.Sasha era ricercato per aver fotografato l’ingresso delle forze di occupazione, nel momento esatto in cui la gente di Kherson si avvicinò ai soldati russi regalando loro dei fiori accompagnati da una richiesta proferita con le buone: «Tornate indietro, Kherson è ucraina». Sasha era lì con la sua macchina fotografica quando il comandante diede l’ordine di declinare l’invito sparando ad altezza d’uomo. Poi cominciò l’occupazione. I russi non se ne sono mai andati davvero. Appostati dietro l’argine opposto continuano a colpire privilegiando obiettivi civili. Sparare con il mortaio contro i quartieri non è come indirizzare i colpi attraverso le linee nemiche sul campo di battaglia. Vuol dire uccidere e terrorizzare chi ci abita. «La gente di Kherson ha conosciuto l’occupazione, migliaia sono sfollati, ma continuano a tornare – racconta Sasha che il giubbetto antiproiettile non lo toglie neanche al chiuso di un caffè sulla via principale, di nuovo bombardata –. Chi perché stanco di vivere da profugo, chi perché vuole provare a resistere tornando a casa».
Nell’ospedale che non ha mai chiuso, neanche quando i soldati ceceni minacciavano i dottori, nel mese di maggio hanno festeggiato per 13 volte: sono nate sette bambine e 6 bambini. E non c’è altro da aggiungere per spiegare cosa spera chi vive senza oramai neanche più contare quante volte bussa il mortaio.