Da mesi, ormai, sui giornali messicani c’è uno spazio fisso. Un riquadro, posto in genere nella prima pagina delle cronache nazionali, in cui sono contenute due cifre: la prima indica gli omicidi compiuti il giorno precedente, la seconda quelli messi a segno dall’inizio dell’anno. A fine 2008, quest’ultimo numero ha raggiunto le 5.630 unità. Tante sono le vittime, per il solo anno trascorso, della 'narcoguerra' – come viene chiamata – che da 24 mesi dilania il Paese. E soprattutto il Nord, lungo la frontiera con gli Stati Uniti. In realtà, sarebbe più corretto parlare di 'narcoguerre'. Perché in Messico è in corso un duplice conflitto. Da una parte, si combattono governo e organizzazioni criminali; dall’altra, queste ultime si fronteggiano fra loro in uno scontro sempre più cruento. La causa scatenante è stata – secondo la versione comune – l’offensiva organizzata dal presidente Calderon, dalla sua elezione nel 2006, contro i cartelli della droga. Il fenomeno, però, è più complesso. Perché il traffico di stupefacenti nel Paese esiste da decenni. Mai prima d’ora, però, s’era verificata una simile ondata di violenza. Nel 2007, le vittime dei 'narcos' sono state 2.700, l’anno scorso sono raddoppiate. In particolare, sempre più civili – estranei alle bande – vengono uccisi dai trafficanti. Che si accaniscono sulla popolazione inerme: si apre il fuoco nei bar, nei ristoranti, perfino negli ospedali. A Natale, a nord ovest di Chihuahua, un commando ha fatto irruzione in un sanatorio per rapire due feriti, reduci da uno sparatoria fra gang. Teste mozzate e cadaveri mutilati vengono lasciati in bella mostra, per intimidire. Negli ultimi giorni, ne sono stati trovati undici, di cui otto a Tijuana. Il 2008 sarà quindi ricordato come el año negro del Messico: in novembre sono state assassinate 943 persone, un record senza precedenti nella storia nazionale. La ragione starebbe in un cambiamento strutturale del mercato della droga. Fino a poco tempo fa, il flusso era orientato verso l’estero, in particolare gli Stati Uniti. Il Messico è da sempre la principale 'via d’accesso' all’America della droga prodotta nel Sud del Continente: di qui arriva il 90% della cocaina consumata negli States. A gestire il lucroso commercio – stime non ufficiali del governo Usa parlano di un giro d’affari di 14 miliardi di dollari – sono stati, dalla fine degli anni Novanta, sette gruppi criminali: Tijuana, Juarez, Colima, Golfo, Oaxaca, Sinaloa e Valencia. Diventati più forti dopo lo smantellamento dei cartelli colombiani di Cali e Medellin, si erano spartiti il territorio nazionale in altrettante aree di influenza, all’interno delle quali controllavano le rotte internazionali. Il 'patto tra famiglie' aveva garantito un’apparente stabilità. La violenza veniva esercitata 'con discrezione', per non attirare lo sguardo del governo o di Washington. L’irrigidimento degli Usa – decisi ad arginare l’ingresso nel Paese dei corrieri – e la politica di 'tolleranza zero' di Calderon hanno reso la frontiera 'poco permeabile'. Con perdite considerevoli per i cartelli. I maxisequestri di droga e gli arresti eccellenti – ultimo quello di Javier Diaz Roman, capo del cartello del Golfo – hanno inferto duri colpi alle 'famiglie'. Producendo, però, un effetto perverso: i gruppi criminali hanno deciso di puntare sul mercato interno. Le tienditas – negozi clandestini di stupefacenti – si sono moltiplicate. Nella sola Tijuana, da sempre crocevia di traffici illeciti, se ne contano 20mila. Il controllo di ampie parti del territorio è diventato fondamentale: più zone si 'amministrano', maggiori sono i guadagni. Le 'famiglie' hanno così cominciato a combattersi tra loro strada per strada, per conquistare i i tanti micro-mercati locali. Questo spiega l’escalation di violenza degli ultimi mesi. Non solo: per portare avanti i propri traffici, i narcos cercano di penetrare nel tessuto delle città, sottraendo allo Stato la legittima autorità. I massacri plateali sono un modo per dimostrare il loro potere e sottomettere gli abitanti con il piombo dei proiettili. Il risultato è agghiacciante: nel Paese c’è un omicidio ogni 90 minuti. L’intera popolazione si sente 'sotto minaccia'. Tanto che le parrocchie di Ciudad Juarez hanno dovuto anticipare al pomeriggio la Messa della notte di Natale: molti anziani avevano infatti paura di uscire di casa a tarda ora. Perfino un funzionario statunitense – Felix Batista –, giunto nel Paese per elaborare una strategia 'anti sequestri', è stato rapito due settimane fa a Saltillo. Il terrore, però, sta producendo, a sua volta, esiti imprevisti. Il fatto di dover fare i conti quotidianamente con il narcotraffico sta spingendo la società messicana a ribellarsi. Sempre più persone partecipano alle manifestazioni – organizzate dalle ong locali – per dire basta alla violenza. Nell’ultimo discorso, il presidente ha ribadito il suo impegno contro i gruppi criminali. Forte anche dell’aiuto degli Usa, che hanno stanziato, con il Plan Merida, un maxifinanziamento di 1.400 milioni di dollari per sostenere il Paese nella lotta alla droga. La prima tranche – 155 milioni – è arrivata il 4 dicembre. Il problema fondamentale resta, però, il contrasto della corruzione che dilaga tra le forze dell’ordine. Il mese scorso, vari funzionari della Procura generale e il capo del-l’Interpol Ricardo Gutierrez Vargas sono stati arrestati per presunti legami coi narcos. Di recente, è stato incarcerato l’alto ufficiale dell’esercito Arturo Gonzales Rodriguez, sospettato di essere nel libro- paga dei fratelli Beltran Leyra, boss di Sinaloa. Calderon, indignato, ha promulgato ieri una legge che stabilisce sanzioni ancora più severe per i funzionari infedeli, permette un miglior coordinamento tra polizia ed esercito e istituisce nuovi servizi per il sostegno alle vittime e ai loro familiari. Intanto, però, la guerra nelle strade continua. E le cifre nei riquadri dei giornali messicani, giorno dopo giorno, crescono.
INTERVISTA
«Corruzione e impunità i due veri mali»«Il governo s’illude di poter sconfiggere i narcos coi fucili, sparando nel mucchio. Così finisce con il mancare il bersaglio: i vertici delle organizzazioni criminali». È sicuro Guillermo Zepeda Lecuona, docente del Centro di Investigacion para el Desarrollo (Cidac) di Città del Messico: la "mano dura" di Calderon non ha dato i risultati sperati. Il massiccio dispiegamento dell’esercito - finora sono stati schierati 45mila uomini - non ha indebolito le bande criminali.
Professore, si può parlare di un tentativo dei narcos di impossessarsi di pezzi del Paese?Certo. Da quando i trafficanti hanno dovuto ripiegare sul mercato locale si è assistito a un "decentramento della violenza". Lo spaccio interno richiede meno organizzazione e disciplina rispetto all’export. I grandi cartelli hanno ceduto spazio a gruppuscoli più piccoli e meno organizzati che realizzano fra loro alleanze instabili. Il risultato è la guerra di tutti contro tutti. Ci sono, inoltre, ampie aree del Paese dove l’intera economia, anche quella legale, dipende dal commercio di stupefacenti. Qui i narcos esercitano un potere parallelo a quello dello Stato: impongono il pizzo ai commercianti e costringono i contadini a coltivare droga. Chi non si piega viene ucciso o è costretto ad andarsene.
Come si è arrivati a questo punto?Ad affollare le carceri sono solo i "pesci piccoli". Dei 15mila condannati per droga, l’87% sono consumatori o spacciatori improvvisati.
Come mai i vertici delle bande criminali restano liberi?Le autorità hanno puntato molto sull’uso della forza. Senza, però, rafforzare in modo adeguato l’unica arma davvero efficace contro il narcotraffico: le sezioni investigative specializzate della polizia. Al contrario, i narcos fanno attacchi mirati: uccidono i migliori magistrati e i vertici delle forze dell’ordine.
Calderon, però, ha iniziato ad usare l’esercito contro i narcos a causa della corruzione presente nella polizia...Il presidente ha chiamato in causa l’esercito, ammettendo di fatto che i 370mila poliziotti non sono affidabili. Parallelamente, non c’è stata però un’azione volta a estirpare la corruzione. Che resta uno dei due maggiori problemi del Paese.
Qual è l’altro?L’impunità. Senza quest’ultima non sarebbe comprensibile il proliferare del narcotraffico come industria. In Messico, la probabilità che un criminale finisca di fronte al giudice è di appena l’1,7%.
Come reagisce la gente all’ondata di violenza?Nel Nord, c’è stato a lungo il culto dei narcos. Un famoso trafficante, Malverde, è diventato una sorta di "santo popolare". Ora, però, qualcosa sta cambiando. La gente è stanca di sangue e violenza.