Nantes. Sia pace agli uomini che non temono le fiamme. La Cattedrale rinascerà
Le fiamme divampano all'interno della Cattedrale di Nantes
Sia chiaro che non voglio né provocare né indignare e tanto meno scandalizzare nessuno. Parlo sul serio: ascoltatemi bene, senza fraintendere. La cattedrale di Nantes è bruciata. Non ci sono state vittime e i danni sembrano meno gravi di quanto di pensasse all’inizio.
Certo, è stata comunque una tragedia, i restauri saranno lunghi e costosi. Abbiamo imparato da quel ch’è successo a Parigi il 15 aprile dell’anno scorso che queste cose sono tutt’altro che indolori. Ma in realtà e in sostanza, dobbiamo dirlo alto e forte e chiaro: sia resa lode a Dio. Non solo per ringraziarlo perché tutto poteva andare molto peggio, ma anche e soprattutto per quel che è successo subito dopo e sta accadendo ancora. L’avevamo già provata, questa sensazione confortante e quasi esaltante, all’indomani del rogo di Notre-Dame di Parigi.
Ieri, la cattedrale dei santi Pietro e Paolo di Nantes ha ripetuto il miracolo; del resto, per tutt’altra ragione, avevamo provato qualcosa di analogo quando magicamente tutti gli occhi del mondo si sono puntati su Santa Sofia d’Istanbul che – dopo essere stata nove secoli cristiana di rito greco, un po’ meno di un secolo (fra 1204 e 1261) cristiana di rito latino, poi di nuovo cristiana greca un paio di secoli, quindi moschea per mezzo millennio, poi ancora museo per una novantina di anni – ci ha comunque ricordato che, in un modo o nell’altro, essa è casa di Dio e della preghiera; e che in questo mondo che, “secolarizzato”, sembra aver finito col perdere ogni senso identitario, c’è sempre prima o poi una dimora divina che ci ricorda chi siamo.
Una chiesa, una cattedrale: non un palazzo del potere, non un parlamento, non una banca, non una fabbrica, non una stazione, non un aeroporto, non uno stadio, non caserma, non una clinica. Noi possiamo esserci anche “laicizzati” e magari perfino ateizzati: ma a ricordarci chi e che cosa siamo nel profondo riemerge sempre, prima o poi, una domus orationis.
Non sappiamo chi e per quale motivo o per quale aberrazione abbia appiccato il fuoco alla cattedrale di Nantes. Se c’è un responsabile, e non ci spiegherà il motivo del suo gesto, esso resterà inesplicabile e quindi inutile. Se ce lo spiegherà, esso si proporrà dinanzi a noi in tutta la sua insignificante pochezza. Il piromane ha già perduto; l’incendiario si è incenerito dinanzi alla storia ben prima dell’edificio che avrebbe voluto distruggere.
Ma noi, dinanzi a quel rogo, abbiamo capito che senza cattedrali non si vive. Ci siamo accorti di quanto e fino a che punto siamo legati a coloro che le hanno edificate. Ci siamo resi conto del senso profondo di un’opera ciclopica. La cattedrale è un monumento alla follia: non a quella banale e insignificante di chi si è illuso di distruggerla, ma a quella santa e sublime di coloro che, edificandola, hanno inteso fondare un luogo calcolato esattamente perché, nei giorni di grande solennità, tutto il popolo di una città potesse trovarvi posto. Questo era il senso della cattedra episcopale, dalla quale il vescovo era chiamato a svolgere il suo còmpito di Padre, di Maestro e di Pastore. Questo era il senso delle dedicazioni che, nelle cattedrali, erano sempre non solo ai patroni ma anche, insieme, alla Vergine Maria come simbolo sacro e unitario della Chiesa.
In questi anni di disorientamento, sembra che l’Europa stia svanendo. Le istituzioni dell’Unione che ha ben due capitali, fra Bruxelles e Strasburgo, non ci convincono e l’idea di esserne cittadini – dopo essere stata un sogno per qualche generazione, compresa la mia – non riesce purtroppo più a entusiasmarci. Ma quando l’Europa era un giovane sogno di primavera, fra XI e XV secolo, il suo simbolo identitario era duplice: la cattedrale e l’università, lo spirito e lo studio, la fede e il sapere.
La cattedrale di Nantes rinascerà più bella, come sta rinascendo più bella Notre-Dame di Parigi. Se assicureremo alla giustizia il piromane, tanto meglio: ma egli non c’interessa. C’interessa tornar a godere di quelle guglie, c’interessa tornar a pregare sotto quelle altissime volte: e là riscoprire noi stessi. Gloria a Dio nell’Alto dei Cieli e, sulla terra, pace agli uomini che non temono le fiamme.