La crisi. Spunta la tregua nel Nagorno-Karabakh. L'Armenia pronta a esplodere
Nel giorno in cui si celebra l’anniversario della indipendenza dalla Unione Sovietica, l’Armenia dovrà digerire l’amaro accordo per una tregua nel Nagorno-Karabakh, dove le forze separatiste ieri si sono ufficialmente arrese, ma diversi irriducibili non vogliono saperne di deporre le armi e consegnare l’enclave all’Azerbaigian. Ne ha fatto le spese un team di soldati russi della “forza di pace”, caduti in un agguato mentre nelle stesse ore a Yerevan la folla gridava inneggiando all’Artsakh, il nome armeno del Nagorno, e l’opposizione parlamentare presentava la richiesta di impeachment contro il primo ministro Nikol Pashinian, accusato di non avere protetto e difeso gli armeni del Karabakh e di aver lasciato fare Mosca.
Le proteste a Erevan contro il premier - Reuters
Sia per la maggioranza degli armeni che vivono nell’enclave sia per l’opposizione nella madrepatria, il Cremlino non ha svolto un ruolo neutrale con i suoi “pacekeepers”, i quali anziché mantenere la pace e assicurare l’accesso di viveri, carburante e farmaci nella zona contesa attraverso il corridoio di Lachin, per nove mesi avrebbero lasciato fare i soldati azeri e questi ultimi ne avrebbero approfittato per isolare l’intera regione. Il ministero della Difesa russo ha dichiarato che i militari uccisi stavano tornando da un posto di osservazione vicino al villaggio di Dzhanyatag, quando sono stati attaccati da armi leggere. Non è stato precisato quanti siano i militari colpiti, ma la “rappresaglia” peserà sullo sviluppo negoziale. Mosca sembra già lavarsene le mani: «L'Azerbaigian agisce sul proprio territorio, che l'Armenia ha riconosciuto – ha detto il portavoce del Cremlino, mitrij Peskov – quindi si tratta di un affare interno dell'Azerbaigian».
Prendendo in prestito il lessico adoperato da Mosca in Ucraina, Baku ha parlato di «operazione militare antiterrosimo» contro i separatisti armeni. Un attacco lampo, chiuso in meno di ventiquattr’ore. Non le chiamano più “guerre”. Anche se in una notte e un giorno i morti sono stati più di 30, tra cui 7 civili, e i feriti diverse centinaia. Ma in Armenia nessuno scommette sulla definitiva fine delle ostilità. Gli azeri sanno che l’enclave montuosa dove vive la minoranza cristiana armena non si arrenderà fino a quando non vedrà riconosciuta l’autonomia da Baku. Le case sventrate, le ambulanze distrutte, lo scambio di accuse e la consueta propaganda imbastita con le immagini dai droni azeri (di fabbricazione israeliana) che colpiscono al suolo, hanno alimentato una giornata convulsa, cominciata nel buio dei primi attacchi all’alba di martedì e conclusi nell’oscurità del blackout elettrico provocato dal deliberato danneggiamento delle infrastrutture energetiche che erogano la corrente ai villaggi montuosi della regione.
I separatisti hanno affermato che l'Azerbaigian ha bombardato il territorio montuoso con artiglieria, jet e droni, con un tempismo studiato. Il giorno prima era stato autorizzato il transito degli aiuti attraverso l'unico collegamento stradale dall'Armenia al Nagorno-Karabakh. «Mi sono giunte notizie preoccupanti», ha detto papa Francesco a proposito degli scontri nel Caucaso meridionale, «dove la già critica situazione umanitaria – ha aggiunto il Pontefice nel corso dell’udienza generale – è ora aggravata da ulteriori scontri armati». Alle parti e alla comunità internazionale il Papa ha rivolto un appello «affinché tacciano le armi e si compia ogni sforzo per trovare soluzioni pacifiche per il bene delle persone e il rispetto della dignità umana». Tuttavia anche diversi media locali fanno notare come il governo non avesse scelta e che ora può solo tentare di ottenere una regolamentazione internazionalmente accettata per la minoranza nel Nagorno. In Armenia vivono 2,7 milioni di persone. Nonostante si tratti di un Paese con scarse risorse, lo scorso anno Erevan ha registrato una crescita del prodotto interno lordo dell’11 per cento.
La dipendenza dal gas russo è un cappio da cui l’economia armena non può smarcarsi e l’unica alternativa sarebbe importare energia dall’Azerbaigian, con cui però le tensioni non si sono mai stemperate. La Francia ha chiesto che il Consiglio di sicurezza si riunisca sulla crisi nella regione. L'Albania, che detiene la presidenza di turno, ha annunciato che la sessione si terrà giovedì. Il ministro degli Esteri francese Catherine Colonna ha accusato Baku di avere compiuto un’azione militare «illegale, ingiustificabile e inaccettabile». Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha espresso la sua preoccupazione durante il discorso all'Assemblea generale. «Le nuove attività militari – ha detto – portano a un vicolo cieco. Devono finire». Il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, ha fatto sapere di avere parlato telefonicamente con i leader di Armenia e Azerbaigian, chiedendo al capo di stato azero Ilham Aliyev di «cessare immediatamente le azioni militari nel Nagorno-Karabakh». Gli Stati Uniti hanno preso contatto anche con la Turchia, che conserva legami culturali e strategici con l'Azerbaigian, dopo che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan da New York ha confermato il suo sostegno all'offensiva nel Nagorno-Karabakh.
Notizie che in piazza della Repubblica vengono accolte urlando all’indirizzo del premier: «Nikol è un traditore!». Il primo ministro Nikol Pashinyan aveva già perso la seconda guerra del Karabakh contro l'Azerbaigian nel 2020, ma pochi mesi dopo ottenne comunque ha comunque la rielezione promettendo una processo di «reintegrazione senza intoppi». Nei giorni scorsi aveva preso le distanze da Mosca per la guerra in Ucraina. E dal Cremlino avevano fatto sapere che ci sarebbero state «conseguenze».