I birmani saranno chiamati domani alle urne per decidere quale Parlamento traghetterà il Paese verso un regime più democratico. La storia del Myanmar, però, insegna che per tutto quanto si riferisce alla politica, e in particolare agli interessi dei militari, il condizionale è d’obbligo. Le ultime elezioni, che si sono svolte nel 1990 con la vittoria della Lega nazionale per la democrazia (Nld) di Aung San Suu Kyi, avevano lasciato sperare che la dittatura, iniziata nel 1962, fosse terminata. L’improvviso voltafaccia del governo, che annullò il verdetto popolare, spense le flebili speranze di democrazia. Oggi la situazione sembra lasciare qualche spiraglio di ottimismo: Than Shwe, il numero uno della gerarchia militare, è vecchio e malato. Le elezioni, codificate da una Costituzione approvata nel 2008, saranno il suo salvacondotto per la vecchiaia. È proprio nell’uscita di scena di Than Shwe che si ripongono tutte le speranze per l’avvio di una transizione democratica. Gli ufficiali militari più giovani, che sino ad ora non hanno avuto alcuna possibilità di emergere, sembrano più interessati a riformare l’intero sistema politico ed economico piuttosto che a mantenere uno status quo destinato ad emarginare il Paese. Però, assicurando il 25% dei seggi parlamentari al Tatmadaw (le Forze Armate birmane), qualunque sia l’esito che scaturirà dalle urne, i generali saranno ancora in grado di controllare la politica nazionale.Lo stesso, il Myanmar sta affrontando un passo significativo. E rischioso. «I birmani non sono ancora pronti a gestire il Paese con la democrazia» ci dice un diplomatico occidentale. Che continua: «Il timore è che il Myanmar cada in uno stato di caos incontrollato simile a quello che ha portato alla dissoluzione della Yugoslavia». La giunta militare ha comunque già ottenuto una piccola vittoria con la spaccatura interna dell’Nld tra la fazione che, seguendo le direttive di Aung San Suu Kyi, non parteciperà al voto e quelle che, invece, hanno deciso di provarci. Tra queste, il National democratic force (Ndf), uno dei 37 partiti ammessi alla tornata elettorale. «Queste elezioni – sottolinea Khin Maung Swe, ex portavoce dell’Nld e fondatore dell’Ndf – non avranno tutte le caratteristiche di un voto democratico, ma per la prima volta dal 1962, I civili potranno entrare a pieno titolo nel governo del Myanmar». Divisi sulla partecipazione al voto, i due principali partiti di opposizione si sono comunque uniti, ieri, nella denuncia del gruppo politico che rappresenta la giunta, l’Unione per la solidarietà e lo sviluppo (Usdp), accusato di «barare» e «minacciare» gli elettori in vista del voto di domani. Assieme a Khin Maung Swe, altri esponenti dell’opposizione hanno preferito cogliere l’opportunità del voto: Kaung Myint Htut, leader del Gruppo 88 che nel 1988 aveva condotto la protesta studentesca contro Ne Win, afferma che il voto sarà «una prova più per la giunta che per le forze democratiche» perché i militari dovranno «dimostrare di saper mantenere la promessa di un avvio alla democrazia».Il primo test del nuovo corso politico lo si avrà il 13 novembre, giorno in cui Aung San Suu Kyi dovrebbe essere liberata. Sono in tanti, a Yangon, a sperarlo, anche se molti membri dell’Nld hanno espresso dubbi sulla libertà di movimento che verrà concessa alla Lady.La liberazione di Aung San Suu Kyi farebbe parte di un nuovo approccio verso gli Usa e l’Occidente, sino ad oggi ostacolato in tutti I modi da Than Shwe. Non è un caso che nel febbraio 2009, Hillary Clinton ha annunciato un ammorbidimento delle sanzioni verso il Myanmar. Già nel 2007 l’arcivescovo di Yangon, Mons. Charles Bo, auspicava questa apertura da parte di Washington: «Il boicottaggio verso il nostro Paese» diceva, «danneggia solo la popolazione birmana, consegnando il Myanmar nelle mani della Cina». Ed è proprio Pechino che guarda con sospetto il nuovo corso diplomatico. Il Myanmar è un serbatoio energetico indispensabile per l’economia cinese, che solo negli ultimi sei mesi ha investito nel Paese 8,17 miliardi di dollari, quasi tutti in campo energetico.«A Pechino non interessa quale sia l’esito delle elezioni», analizza Thu Wai, ex prigioniero politico e oggi leader del Democratic Party. «Alla Cina interessa solo che il Myanmar continui ad essere economicamente legato ad essa e che il nuovo governo mantenga la stabilità nazionale».