Offensiva dopo il golpe. Il Myanmar scopre un'altra guerra nella guerra
Sfollati birmani in fuga dai combattimenti oltre il confine thailandese
La Settimana mondiale per la Protezione dei civili istituita dall'Onu (20-24 maggio), ancora più significativa per l’avvicinarsi dei 75 anni delle Convenzioni di Ginevra, è trascorsa come altre in Myanmar dove imperversa la guerra civile.
Unico segnale di riconoscimento che “qualcosa” sta succedendo in un’area del Sud-Est asiatico cruciale per collocazione e risorse è che le Nazioni Unite hanno deciso il 23 maggio di mobilitare a Ginevra il proprio Meccanismo investigativo per il Myanmar. A chiamare all’azione è stata l'offensiva dell’Arakan Army, che pretende di rappresentare la popolazione Rakhine contro il regime militare ma che secondo fonti locali sta prendendo di mira anche i musulmani Rohingya rimasti sul territorio (800mila a fronte dei quasi due milioni rifugiati all’estero). Dopo la conquista della città di Buthidaung testimonianze locali segnalano roghi, decine di morti civili, decine di migliaia di sfollati bloccati dai ribelli e 45mila Rohingya fuggiti in Bangladesh in un paio di settimane.
Esempio di come il Paese, esteso due volte l’Italia e con 55 milioni di abitanti, sia caduto nel caos e che la situazione sia aperta a ulteriori sofferenze per la popolazione, a partire dai tre milioni di profughi interni del conflitto. La comunità internazionale fatica a trovare un ruolo, dopo che per 75 anni ha permesso che l’apparato militare abusasse della popolazione e nutrisse le proprie necessità e privilegi con la svendita di risorse (e milioni di migranti) a Paesi distratti o complici che ancora oggi hanno un ruolo nella crisi.
La Cina non nasconde l’insofferenza verso la giunta al potere del primo febbraio 2021 a cui negherebbe ora il sostegno militare mentre procede consistente quello dalla Russia perché incapace di riportare alla “normalità” aree sottoposte agli investimenti cinesi ma nemmeno di smantellare le attività criminose di gang di origine cinese di cui è stata chiesta la fine e l’estradizione dei responsabili. Pechino si trova anche a dovere trattare con le etnie prossime ai suoi confini per impedire che il conflitto sconfini e che siano tutelati interessi e cittadini cinesi.
A sua volta la Thailandia ha aperto un flusso limitato di profughi per ragioni umanitarie e forse con la speranza di raggiungere finalmente il seggio nel Consiglio Onu per i Diritti umani finora negato dalla propria situazione interna. Contemporaneamente Bangkok sta accogliendo masse di lavoratori birmani con l’intento di chiudere le falle che si vanno aprendo nelle necessità di manodopera per l’invecchiamento della popolazione. In Bangladesh un flusso limitato di Rohingya in arrivo via terra si incrocia con quelli che lasciano i campi profughi per cercare via mare una speranza spesso negata dal naufragio o da azioni di pirateria.
L’India da parte sua ha messo in stand-by il rimpatrio forzato di Rohingya sostenuto dalla nuova legge sulla cittadinanza nel suo Stato di Manipur, ma la campagna elettorale in corso è solo un tempo di sospensione per permettere, una volta stabilita la nuova guida del Paese (con ogni probabilità la stessa affidata ai nazionalisti filo-induisti) di regolare la presenza di circa 100mila Rohingya accusati dai nazionalisti di fare il gioco dei musulmani per dominare l’India.