Analisi. Myanmar, ancora i militari al potere. L'incognita San Suu Kyi
Il ritorno al potere dei militari può difficilmente sorprendere chi segue abitualmente le vicende dell’ex Birmania, oggi Myanmar. Con ogni probabilità si chiariranno presto meglio le loro ragioni e intenzioni, ma di fatto, quel potere che hanno detenuto apertamente per quasi mezzo secolo dal 1962 al 2011 terrorizzando la popolazione, incarcerando o decimando gli oppositori e aggredendo senza piegarle le minoranze etniche che rivendicavano identità e diritti, non lo hanno mai lasciato.
La pretesa, oggi, di essere intervenuti a salvaguardia della Costituzione fa emergere con chiarezza le loro intenzioni, dato che quella in vigore è una Carta scritta da essi, fatta approvare con un referendum-farsa mentre era in corso un ciclone che a inizio maggio 2008 costò al Paese 140mila morti e dispersi, semplicemente poneva nell’incertezza e nel ricatto qualunque parlamento o governo si fosse succeduto dopo la “restituzione” ai civili del potere dal 2011.
Proprio il rischio dopo la vittoria straripante dei rivali della Lega nazionale per la democrazia che lo scorso novembre ha lasciato solo 33 seggi contro 396 ai gruppi associati agli interessi delle forze armate, dell’avvio di un percorso di modifica della Costituzione per togliere loro le prerogative maggiormente negative per una democrazia reale, tra cui il 25 per cento dei seggi loro garantiti e quindi del diritto di veto, hanno spinto all’azione. Un’azione che avevano anticipato o almeno prospettato da quando avevano denunciato brogli durante le elezioni, chiesto un ricalcolo dei voti e poi – vista l’impossibilità di ottenere soddisfazione – avevano rilanciato il loro ruolo “costituzionale”.
Altri elementi possono avere incentivato una mossa che nasconde pesanti rischi, a partire da sanzioni internazionali già annunciate verso i generali golpisti e una reazione interna che potrebbe svilupparsi nelle prossime ore o giorni con una eventuale repressione.
Anzitutto il rischio per gli uomini in divisa che la Premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, riferimento ancora per la Lega, potesse riappropriasi in pieno di un ruolo non solo politico e ministeriale ma anche ideale di un popolo che in essa ha creduto per un ventennio e che ne ha fatto simbolo della lotta nonviolenta per la democrazia. Il suo prestigio internazionale, appannato per non avere saputo opporsi alla persecuzione con sfumature di genocidio dei musulmani Rohingya nell’Arakan (Rakhine), si è indebolito, ma la democrazia birmana non ha al momento un sostituto credibile.
Proprio le pressioni internazionali sui militari per la persecuzione dei Rohingya potrebbero essere state un altro elemento che ha convinto all’azione la leadership militare (o almeno la parte meno dialogica e più connessa con i vasti interessi economici che le forze armate mantengono in tante aree del Paese, a partire da quelle di confine abitate da minoranze, come appunto l’Arakan). Con un ruolo probabilmente cinese, con ogni probabilità ufficialmente di mediazione con l’obiettivo di garantire a Pechino la continuità della sua Belt and Road Initiative, ma dove giocano pure la necessità di garantirsi lo sbocco verso i “mari caldi” e di supremazia strategica verso la vicina India che la democrazia birmana, per quanto fragile e bisognosa di sostegno in infrastrutture, commerci e aiuti, gli finora sostanzialmente negato.