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LA CRISI IN EGITTO. «Morsi l'insicuro: promette e non mantiene»

Claudio Monici, inviato al Cairo martedì 11 dicembre 2012
Questa brulicante megalopoli, si sà, è impietosamente assordante, ed ora, per di più, traumatizzata e ferita da un delicato passaggio politico costituzionale, ma allo scoccare del mezzogiorno, la sua piazza più famosa è ancora dormiente. Fogli di carta e rifiuti, e radi gruppetti di persone che si aggirano tra le decine di tende bianche sbuffanti di polvere, sotto cui c’è chi dorme. Gente pronta ad accendersi come fuochi della passione per l’una o per l’altra sponda politico-religiosa, e un provocatore non si nega mai, non appena appare una telecamera. Poter finalmente parlare, dire il proprio pensiero, per l’egiziano del dopo-Mubarak, è stata una grande vittoria di libertà, anche se preoccupa che fotografi e cineoperatori dell’informazione sono a rischio di bastonature e ancor peggio di pistolettate, come è accaduto venerdì scorso, durante l’ultima violenta manifestazione di protesta, contro il giornalista egiziano Abu Deif, ridotto in coma, senza speranze, aggredito a colpi di pistola da un sostenitore dei Fratelli musulmani, il partito del presidente Morsi. E sempre gruppi di islamisti hanno protestato contro la stampa egiziana, per chiedere «la purificazione dalle menzogne che vengono scritte contro di noi».Il pressante carosello di clacson che le gira in tondo, il brulicare di vita che fa del Cairo un formicaio di ben oltre 24 milioni di persone, non scuote il Midan al Tahrir, la piazza della Rivoluzione. Il presidio di una nazione in fermento, su cui stanno puntati gli occhi del mondo intero. Palcoscenico mediatico della protesta degli egiziani che si dividono e bisticciano, prevalentemente ancora lanciandosi pietre e prendendosi a bastonate, ma senza aver spaccato una sola vetrina di negozio, e senza aver ancora, per fortuna, tirato fuori un bazooka, come invece è successo in Libia e in Siria, sulla Costituzione. Ma la tensione c’è e pesa su questa piazza ogni volta che c’è il richiamo della protesta per dire di «no» o «sì» al presidente-rais, l’islamista Mohamed Morsi. Un presidente che promette una cosa e non ne fa due, è il commento della strada. Di quella gente che lo chiama «motaradded», indeciso e insicuro. Forse anche sulla conferma o meno del referendum di sabato sulla tanto contestata neo-Costituzione? Difficile rispondere: in Egitto è sempre un azzardo il gioco delle previsioni. Però c’è chi si chiede se la macchina organizzativa del referendum abbia già previsto quanti sacchi di riso da regalare nei quartieri più poveri del Cairo e dell’Egitto rurale. Bisogna avviarsi verso l’ora del tramonto, dopo che la preghiera islamica del muezzin si sarà diffusa dentro ogni piega del Cairo, e per un momento avrà sovrastato l’assordante ansimare di questa gigantesca “Madre del mondo”, giorno e notte dolente nel pensare di doversi concedere al riposo, che al primo scoppio d’artificio, al primo accenno fischietti, tamburi e di musica rap, al primo oratore si infiamma. E immediato scatterà il grido di ribellione. Fin dentro la notte più fonda, per agitarsi come in una festa di partito, come dentro uno stadio, per una sfida di campionato: «La rivoluzione va avanti».Quella rivoluzione, osserva un analista locale, che è stata un grande terremoto: «Adesso sentiamo le scosse di assestamento e magari ce ne saranno ancora di più forti. Perché l’Egitto è un Paese ancora in cerca di un suo equilibrio». Forse è vero che qualcuno ha interesse a presentare un Cairo, più che una Egitto, sul bordo del baratro. Ma ad ascoltare bene, oltre i megafoni e gli altoparlanti di piazza Tahrir, è un altro il brusio, regolare come il respiro di un solo petto, quello di una megalopoli che prosegue nella sua vita quotidiana e ordinaria, troppo importante, a molti attori nascosti, per cadere vittima di un disastro irrecuperabile.