«Sono il terzo nella lista di morte dei taleban pachistani». Khalil Tahir Sindhu, ministro delle Minoranze del Punjab, pronuncia la frase senza enfasi. Eppure la minaccia è seria. Domenica, il suo collega – il ministro dell’Interno della regione –, Shuja Khanzada, è stato ucciso in un attacco suicida. E, nelle ultime settimane, le intimidazione contro Sidhu si sono fatte incessanti. «Ricevo di continuo telefonate, lettere anonime. Dicono che vogliono uccidermi. Non è la prima volta, ci sono abituato», cerca di minimizzare il ministro e avvocato cattolico. Fin dal 1998, quando esordì come difensore di un imputato per blasfemia, Ranja Masih, Sindhu ha affrontato le pressioni dei fondamentalisti. «In quell’occasione, un testimone arrivò addirittura a minacciarmi in aula, di fronte al giudice», racconta ad
Avvenire. Stavolta, però, le intimidazione hanno provocato allarme nel ministero dell’Interno. «Mi hanno contattato due giorni fa per dirmi che, in base ad informazioni attendibili, i gruppi estremisti mi avevano messo al terzo posto, in ordine di successione, nell’elenco delle persone da eliminare. Così, hanno rafforzato le misure di sicurezza: un’auto della polizia è piazzata fuori dalla porta di casa. Non ho paura. Ho fatto la mia scelta tempo fa: fornire assistenza legale a chi è perseguitato a causa della propria fede e ai tanti “senza voce” dietro le sbarre: donne stuprate dal clan, esponenti delle minoranze i cui diritti umani sono stati violati... Sapevo che gli estremisti avrebbero cercato di fermare il mio lavoro. Ma non si può bloccare la giustizia. Per questo, vado avanti», spiega l’avvocato. Finora, nonostante le minacce, Sindhu non si è mai tirato indietro. Ne è una dimostrazione la lunga lista di presunti “blasfemi” difesi: 37, sette casi sono ancora pendenti nella Corte Suprema. Il più noto è quello di Asia Bibi, la cristiana condannata a morte nel 2010 con la falsa accusa di aver insultato l’islam. La donna si trova da 2.250 giorni in prigione: attualmente è rinchiusa nel carcere di Multan. «Le sue condizioni sono stabili. Sono in contatto costante con lei e con i suoi familiari. Cerco di sostenerli», afferma l’avvocato, parte del pool di difensori di Asia. Il processo, ora, è entrato nella fase decisiva. Dopo la conferma della condanna a morte da parte del tribunale di Lahore, il 22 luglio scorso, la Corte Suprema ha accolto l’istanza di riesame, mentre tre giudici hanno sospeso la pena capitale. Una notizia positiva. La battaglia legale, però, è ancora lunga. «Contiamo che vi vorranno circa tre o quattro mesi per arrivare all’udienza finale», sottolinea il legale, che era presente – insieme al collega Mohammad Saif-Ul-Malook – all’ultima seduta. Al momento, però, non è stata fissata la prossima data. Sindhu, però, non perde lo slancio. «Ci vuole pazienza », afferma. Qualità che condivideva con Shahbaz Bhatti, il precedente titolare delle Minoranze della regione pachistana fino alla morte, per mano di un fanatico, il 2 marzo 2011. Gli integralisti lo odiavano per l’impegno in favore della pacifica convivenza tra fedi e il sostegno pubblico ad Asia Bibi. «Shahbaz ed io abbiamo condiviso la stessa stanza al collegio cattolico di Faisalabad Giovanni Paolo II. Abbiamo iniziato a fare attività politica nello stesso periodo, scegliendo partiti diversi. Il che non ci ha impedito di lavorare insieme per la promozione del dialogo interreligioso», racconta Sindhu, esponente della Lega pachistana il partito del premier Nawaz Sharif, al governo anche in Punjab. Sindhu ha continuato tale impegno, dopo l’omicidio di Bhatti, in aula e come responsabile delle Minoranze. «Le autorità hanno fatto passi avanti sostanziali per favorire il dialogo pacifico tra fedi. Purtroppo ci sono gruppi che hanno fatto dell’intolleranza la loro bandiera. E manipolano la religione per raggiungere il potere», conclude il legale.