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Siria. La forza tecnologica e tattica di ribelli e miliziani spiega il loro successo

Francesco Palmas domenica 8 dicembre 2024

I ribelli ad Hama

Sono tanti gli arcani che circondano la caduta di Aleppo, Hama e infine Damasco, espugnate rapidamente dai miliziani jihadisti di Hayat (Hts) e dai ribelli dell’esercito nazionale siriano (Sna). Vittorie arrivate per demeriti altrui, ma non solo. Passi per la fragilità delle truppe lealiste, patente soprattutto nelle aree estranee al clan alauita. Si dirà che vacillano pure le stampelle russe, iraniane ed hezbollah. È vero, ma solo in parte, perché è innegabile una crescita tattica degli irregolari, simili ormai a tecnoguerriglie che assommano armi vecchie e nuove, e sono talvolta simili a forze convenzionali per struttura, capacità, equipaggiamenti e disciplina.

Hts ha un’accademia militare, unità di forze speciali, visori notturni per operare nell’oscurità, reparti dronistici e si prepara allo scontro dal 2020, mostrando un volto nuovo, abilità propagandistiche, apertura diplomatica e capacità amministrativo-negoziali. Ma è almeno dal 2011 che le guerre civili, siriana inclusa, sono diventate più complesse, violente e ardue da decifrare. Le hanno studiate fra gli altri il colonnello Pierre Santoni e l’ingegnere Marc Chassillan, esperto di guerra terrestre. Nell’offensiva in corso, i ribelli hanno rivelato una conoscenza minuziosa del teatro e delle sue componenti etniche. Hanno risvegliato cellule dormienti, sapendo cogliere le opportunità offerte dalle dinamiche dei rapporti di forza e delle relazioni internazionali. Non solo, nelle loro cavalcate c’è sapienza pianificativa, di comando e controllo, di intelligence, di sinergie fra fanterie, artiglierie e mini-dimensione aerea, c’è capacità manovriera e logistica che per ora regge bene, contro un nemico invero povero, statico e isolato. Per un attimo, sono tornate alla mente le tattiche del Daesh in espansione: concentrazioni rapide, diversioni, uso dei droni da ricognizione e d’attacco.

Gli Shaheen o, se si preferisce, “droni Falco”, stanno facendo la fortuna di Hts. Racconta l’agenzia Agi che questi velivoli «possono essere caricati con esplosivi e sferrare attacchi di precisione fino a 50 chilometri di distanza». Sarebbero declinati da Hts in quattro varianti, prodotti internamente come alcuni razzi. Permettono di riprendere in tempo reale, aprire varchi ai gruppi terrestri, guidare e orchestrare le artiglierie, garantendo margine aereo. Difficilmente contrastabili, mancando ai lealisti schermi antidrone, hanno permesso ai ribelli «di colpire oltre le linee nemiche, mettere fuori uso blindati e isolare la prima linea di difesa». Ci sarebbero stati raid contro carri, postazioni fisse e, forse, veicoli di difesa aerea, in una logica di logoramento prima prodromica, poi simultanea agli assalti convenzionali. I lealisti, poco coperti, si sono rivelati inelastici nell’adattarsi ai nuovi imperativi del campo di battaglia. Hassan Abdul Ghani, che figura fra i comandanti dei ribelli, ha dichiarato sul media X che gli Shaheen hanno bombardato perfino un incontro della Guardia lealista ad Hama. Sembra avessero colpito anche un vertice di alto livello ad Aleppo. Gira e rigira sono sempre loro, i droni, protagonisti già nella prima guerra civile siriana, in Libia e nell’Artsakh, ed esplosi in tutta la loro dirompenza in Ucraina, accusata ingiustamente di aver fornito sistemi e formazione ai ribelli anti-Assad.

Ma i sunniti nuovamente in rivolta usano solo farina del loro sacco? Alcune fonti parlano di una copertura di guerra elettronica alla loro avanzata, che avrebbe obnubilato le trasmissioni lealiste, inficiandone comando e controllo. E che dire delle Toyota 4x4? E di alcuni blindati per il trasporto delle truppe? Sembrano mezzi di provenienza esogena. Forse turchi? È probabile, come l’inquadramento, la formazione, il foraggiamento e le armi dell’Sna, cresciuto con iniezioni degli 007 del Mit e della società privata Sadat, longa manus del presidente turco Recep Erdogan, sostenitrice un tempo del fronte al-Nusra e attivissima in Africa, dalla Somalia alla Guinea, dal Mali al Niger. La Sadat che ha reclutato e pagato mercenari siriani per proiettarli nelle nuove frontiere dell’impero turco, in Azerbaigian, in Libia e servirsene come presidio degli interessi energetici in Africa. Un’azienda che con il Mit ha giocato una partita non sempre limpida nelle varie fasi della guerra siriana, dispensando armi e formazione tattica in poligoni a Tel Abyad e nella regione di Marmara, funzionali alla strategia anticurda della Turchia e allo scontro indiretto contro le propaggini siriane degli imperi persiano e russo.