Non si hanno più notizie di quei quattro ragazzi da una ventina di giorni. Scomparsi nel nulla. Senza più chiamare, o lasciare un messaggio. Kasserine non ha ancora smesso di piangere i martiri della rivoluzione contro Ben Alì, che già si torna a piangere altre vittime. Quelle scomparse nel viaggio verso l’orizzonte, destinazione Lampedusa. Si chiamano Omri Nabil, Thiya Rabhi, Riath Janhawi, Akrem Nasri. «Scrivete i loro nomi, informatevi di loro, in Italia, e se venite a sapere qualcosa fatecelo sapere», chiede implorante un ragazzo con la schiena attraversata da una cicatrice profonda, la ferita lasciata dai proiettili della Guardia Nazionale di Ben Ali nei giorni di gennaio, in pieno tumulto rivoluzionario, quando, in questa città arretrata e depressa nel cuore della Tunisia, persero la vita settanta persone. I quattro ragazzi sono salpati da Sfax, intorno al 15 marzo, negli stessi giorni in cui quaranta tunisini sono finiti inghiottiti dal mare a pochi chilometri dalla partenza, dopo il rovesciamento del loro barcone. Erano tutti disoccupati, come la maggior parte dei giovani di Kasserine e dei manifestanti per la libertà che hanno perso la vita negli scontri. All’indomani della tragedia del 15 marzo, per alcuni giorni drappelli di familiari hanno protestato a Tunisi davanti al Palazzo del governo, nella Kasbah,e innanzi all’Ambasciata d’Italia in Rue de Russie. «Aiutateci a ritrovare i nostri ragazzi», hanno gridato per giorni, scavati dal dolore, vestiti a lutto, con in mano la foto dei loro cari di cui non si sa più nulla. Volti di giovani e giovanissimi, tutti uomini, saliti a bordo di una nave salpata dall’arcipelago di Kerkennah, a pochi chilometri da Sfax, e scomparsa fra le due sponde così vicine del Mediterraneo. L’Ambasciata d’Italia ha ricevuto la delegazione dei familiari, ha registrato i nomi dei dispersi e li ha comunicati alle autorità Italiane. Ma ancora si attende che i flutti restituiscano quei corpi. Timore, ansia, angoscia per la sorte di chi parte montano come un’onda su tutte le spiagge del Paese. La paura che il sogno europeo si trasformi nell’incubo del naufragio proietta la sua ombra sul popolo degli
harraga, che si accalca sulla costa. A Sfax un pescatore ci parla con gli occhi rossi di pianto: «Due giorni fa da questo porticciolo sono partite tre barche. Sappiamo che ne è arrivata solo una. Delle altre due, non abbiamo avuto più notizia», e indica una banchina di legno che si allunga sul mare, da dove, fra qualche ora, è in programma un’altra serie di partenze per le Pleiadi. Per molti tunisini è impossibile mettersi in contatto con i familiari arrivati a Lampedusa. C’è chi si ritrova con la batteria del cellulare scarico, e chi non riesce a trovare un telefono nel caos dell’isola. E, ora, con i trasferimenti negli altri campi italiani le comunicazioni possono diventare ancora più difficili. I quotidiani, sia quelli in lingua araba sia quelli in francese, dedicano articoli su articoli ai pericoli del viaggio. Prima i 40 dispersi del 15 marzo. Poi la notizia dei tre migranti affogati mentre tentavano di raggiungere a nuoto Lampedusa, dopo aver abbandonato il loro natante perché spaventati da un’avaria al motore, quando erano ormai a pochi chilometri dall’arrivo. Degli stessi giorni è la cronaca di un’altra sventata tragedia: un barcone si è ribaltato lasciando in mare i suoi 90 passeggeri, salvati solo per miracolo dalla Marina Nazionale. Ed ora è la volta delle 27 salme, recuperate a largo di Sfax, e dei 68 morti ripescati davanti a Tripoli. Ma la dissuasione non basta, quando la partenza sembra a portata di mano. «Gli stessi militari, qui, per 30 dirham ti danno un passaggio a Sfax, dove c’è gente che organizza i viaggi per l’Europa», spiega Mohamed, fratello di Walid Saadawi, uno dei martiri di Kasserine. Dopo la morte di Walid, anche il terzo dei fratelli Saadawi aveva deciso di partire per Lampedusa. «Ma gliel’ho impedito – spiega Mohamed, rimasto a fare il capofamiglia – mia madre ha già perso un figlio nella rivoluzione. Non voglio che un altro rischi di finire inghiottito nel mare». Poi si alza, e mostra il buco nel suo giubbotto all’altezza del fianco. «Questa che indosso è la giacca di mio fratello. E questo è il foro lasciato dal proiettile dei cecchini, che gli è costato la vita. Ora di morte non voglio più sentir parlare». Radwane ha 18 anni, siede sotto un caffè di Zarzis, a due passi dalla spiaggia lungo cui, durante questi mesi, sono salpati migliaia di migranti. «Mi blocca solo la paura del mare», ci spiega. Insieme ad altri ragazzi tiene compagnia a Zidie, un suo amico di infanzia che è in procinto di imbarcarsi per Lampedusa e aspetta solo la telefonata del passeur. Tutti lo prendono in giro: «Zidie, sei il nostro eroe!», ridono per sdrammatizzare. Zidie è agitato, si tormenta le mani, dondola le gambe. Dalla tasca tira fuori un pugno di hashish, ne stacca un pezzo e se lo mette in bocca. «Mi serve per calmarmi», spiega. Poi arriva la telefonata del passeur. Zidie parte per la spiaggia dove lo attende la barca. È notte, il mare è più nero del cielo. Qualcuno è morto sfidando quell’orizzonte. Zidie lo sa, cerca di non darlo a vedere, ma ha paura.