Reportage. Nei campi dei migranti dal Messico in Usa, dove un numero "ti salva"
La maggior parte dei migranti accamapati sono donne e bambini
«Due, cinque, tre, nove». Scandisce i numeri senza un minimo di esitazione Claudia. La clave, cioè il codice, è tutto ciò che le resta nella tenda di Reynosa, estremo oriente messicano, a pochi passi da Hidalgo, la città-gemella Usa. La clave e le foto dei quattro figli custodite in una cartella di plastica. Le estrae da sotto il materassino da campeggio e le mostra con un misto di orgoglio e dolore. Si sofferma sul ritratto del primo ragazzo, rimasto a Tegucigalpa, in Honduras, perché non c’erano abbastanza soldi per pagare per tutti il coyote, il trafficante. E lei doveva andare.
Le maras – gang che controllano le baraccopoli delle città centroamericane – volevano reclutare il secondogenito. Il rifiuto è costato al ragazzo cinque proiettili, un anno e mezzo di riabilitazione e altrettanto tempo in clandestinità nel suo stesso Paese. «Avevano decretato la luz verde, il via libera per assassinarlo. Appena i miei fratelli, che vivono negli Usa, sono riusciti a mettere insieme i soldi per il viaggio, siamo partiti, in piena notte». Dando fondo ai magri risparmi e indebitandosi, la famiglia di Claudia le ha inviato i 9mila dollari a testa chiesti dal coyote. Il “pacchetto” includeva il tragitto attraverso il Messico, fino alla frontiera statunitense e, cosa fondamentale, la clave.
Una sorta di assicurazione anti-sequestro: il “numero magico” dimostra che i migranti hanno già pagato il pedaggio. O, meglio, il trafficante lo ha fatto per loro: è l’unico modo per poter “lavorare” nelle terre dei signori del narcotraffico. I profughi ne imparano a memoria la sequenza e la ripetono quando un gruppo criminale li intercetta nel percorso verso Nord. Il che accade di frequente. «Ci hanno preso a Monterrey, a Gustavo Ordaz... Ma è soprattutto qui che occorre. Chissà se funziona ancora».
«Qui» significa il confine, l’ultima tappa del periplo, la più lunga da quando, prima il programma Remain in Mexico di Donald Trump e poi la pandemia, l’hanno blindato anche per i richiedenti asilo. Trasformandolo in un imbuto lungo 3.300 chilometri.
Il campo continua a crescere nell'indifferenza delle autorità - Msf
«Le crisi alla frontiera sono il prodotto delle politiche di Washington. Realizzate con la connivenza del Messico», spiega José Antonio Silva, coordinatore dei progetti di Medici senza frontiere (Msf) a Reynosa e Matamoros. Lungi dal ridurre il flusso, le ultime misure di contenimento l’hanno reso più caotico e crudele. Dentro le città a ridosso del Rio Bravo – da Tijuana a Nuevo Laredo – nascono enclave anarchiche popolate da chi aspetta, spesso invano, il momento propizio per presentare istanza di rifugio. Come Claudia, accampata dal 15 agosto nella Plaza de la República di Reynosa, insieme ad altri 2.700 aspiranti profughi provenienti da Honduras, Guatemala, El Salvador, ma anche Haiti e Cuba. Sotto l’occhio vigile de La Maña, come tutti chiamano il cartello del Golfo, la mafia che controlla una città di 700mila abitanti. E gestisce l’industria dei sequestri, in piena espansione. Impossibile avere delle cifre. Ma è sufficiente parlare con i profughi per toccare con mano la paura. O vedere i bambini giocare "al rapitore". «Hanno cercato di prendermi mentre andavo a comprare del cibo di fronte alla piazza. Erano a bordo di un furgoncino nero. Mi sono messa a correre e correre... Il “codice” ormai è vecchio: sono a Reynosa da cinque mesi», dice abbassando la voce Carolina, salvadoregna, fuggita con la figlia 13enne da un marito violento.
La situazione potrebbe peggiorare con il ripristino del programma Remain in Mexico - Msf
«Ho visto portare via due ragazzi, la notte. Per cosa? Chiedono il riscatto a parenti e amici negli Usa. Se non paghi vieni rivenduto nel mercato del sesso, degli organi, del lavoro schiavo. Per questo non dormivo mai, avevo paura prendessero mia figlia», racconta invece Belgis, venuta dall’honduregna San Lorenzo insieme al marito e alla bimba di 7 anni. Stress e insonnia prolungata le hanno scatenato una forte depressione da cui cerca di riprendersi nel rifugio Sendas de vida del pastore evangelico Héctor Silva, unica oasi per gli sfollati insieme alla casa Nostra Signora di Guadalupe, gestita dalle suore della carità di San Vincenzo de Paoli. «Vorremmo avere più posti per accoglierli tutti. Almeno qui sono al sicuro», dice suor Edith Garrido. Lontano da La Maña e dalla rete di spie – in primo luogo i taxisti – impiegate per sorvegliare il “bottino umano”. La concentrazione fisica dei migranti nella piazza fa comodo ai narcos perché favorisce la caccia. Non sorprende, dunque, che sia stato proprio il cartello del Golfo – come confermano fonti ben informate – a regalare le prime tende, la scorsa primavera, con cui è stato creato l’accampamento. Fino ad allora, era Matamoros – distante 90 chilometri e sempre sotto il controllo della Maña – l’epicentro del flusso. Appena entrato alla Casa Bianca, però, Joe Biden ha sospeso Remain in Mexico, il piano che costringeva i richiedenti asilo negli Usa ad aspettare la decisione dei giudici in territorio messicano.
Il campo di Reynosa è nato nella piazza principale - Msf
Dopo due anni di limbo, in 70mila sono stati trasferiti oltreconfine, inclusi i tremila abitanti del maxi-campo di Matamoros, simbolo della tolleranza zero trumpiana. Svuotata una tendopoli, però, ne è spuntata subito un’altra. Perché, retorica a parte, la frontiera non ha mai riaperto per i profughi venuti dal Sud, ferito dalla violenza, dal cambiamento climatico e dall’instabilità politica. Il democratico Biden ha lasciato in vigore il controverso “Titolo 42” emanato dal predecessore: in tempo di Covid è consentita l’espulsione express – meno di 15 minuti – di chi bussa i posti di controllo per fare domanda di rifugio. La gran parte viene “risputata” a Reynosa. Gli altri – turisti, imprenditori, professionisti – possono passare. I più giovani e forti scelgono la migrazione irregolare per il deserto.
Il campo è a pochi passi dal ponte internazionale e dalla gemella Usa Hidalgo - Msf
Nella piazza si accumulano donne e bimbi, rispettivamente il 60 e il 40 per cento del totale. Ufficialmente, per volere di Biden, ai minori è consentita l’entrata in deroga al Titolo 42. Le famiglie di profughi, così, si auto-separano. Claudia, ad esempio, ha fatto attraversare i due figli più piccoli, di 14 e 15 anni. «Mi si è rotto qualcosa dentro quando sono andati via. Ma con loro ho finto di essere felice. “È una buona occasione”, mi sono detta. Poi ho pianto per giorni. So, però, che stanno meglio con mia sorella in Missouri». In realtà, nella selva di eccezioni burocratiche, molto è lasciato all’arbitrio dell’agente di turno. Il marito di Soyapa, ad esempio, vicina di tenda di Claudia, è riuscito a “passare” con le braccia il figlio di tre anni. Lei e l’altro bambino, di 7, no. «Il piccolo gridava, disperato. Ho detto ad Ángel di andare avanti, almeno loro».
Per uno che lascia la piazza, molti altri ne arrivano. Ora la situazione potrebbe peggiorare ulteriormente: il 2 dicembre, un giudice del Missouri ha costretto Biden a ripristinare Remain in Mexico. I richiedenti asilo già negli Usa iniziano ad essere spediti oltreconfine. Non a Reynosa, però. Almeno non ancora. L’accampamento, comunque, continua a dilatarsi. Nell’indifferenza delle autorità, di entrambi i lati del confine.
I profughi sono nel mirino dei narcos - Msf
Msf e le Chiese, cattolica ed evangelica, sono gli unici riferimenti stabili. Sacerdoti, religiose e pastori portano coperte e cibo, con cui i migranti hanno improvvisato quattro mense. Il personale di Medici senza frontiere si muove nel labirinto colorato di tende fai-da-te per dare assistenza sanitaria. «Disturbi gastrici, dermatiti e infezioni respiratorie sono le malattie più diffuse», sintetizza il coordinatore di Msf. «No, il Covid no. Ci sono pochi casi – aggiunge Silva –. Il che è incredibile». È incredibile, vedendo un luogo dove i materassini sono ammassati gli uni sugli altri e 16 bagni chimici e 12 docce devono bastare a quasi 3mila persone. È stata Msf a portare le cisterne di acqua e i generatori rudimentali per ricaricare i cellulari. «Per i profughi, una telefonata è meglio di una psicoterapia», sorride Silva. Davanti a lui Rudy fissa l’apparecchio, lo sta facendo da ore. Non ha nessuno da chiamare da quando la moglie è morta in Guatemala e la figlia di otto anni è stata ammazzata sotto i suoi occhi nel viaggio a Nord.
«Spesso si perde nei suoi pensieri e resta tutto il giorno sul materassino. Noi lo costringiamo ad alzarsi. Non deve lasciarsi andare – conclude un’amica di Rudy, Maria José, mentre sfoggia le unghie laccate e i capelli in ordine –. Anche a me non è andata bene. Mia nonna è morta nel tragitto. Ci hanno rapito e ho partorito il 26 agosto su questa piazza. Non posso ormai più tornare indietro: per partire ho dovuto dare la casa al coyote. Non mollo. L’ho imparato nel viaggio. Questo mi ha insegnato che cosa significhi davvero avere fede: affidarsi e andare avanti. Passo dopo passo».
I profughi sono nel mirino dei narcos - Msf