Lo stillicidio. Sempre più armi nella «guerra dei narcos» in Messico
Manifestazione a Città del Messico dei parenti delle vittime dei narcos (Ansa/Epa)
Juan Francisco Fausto Adame si è spento nella clinica Santa María di Ciudad Juárez all’alba di ieri, dopo una notte di agonia. Qualche ora prima era stato colpito da una raffica di proiettili mentre usciva di casa per recarsi al lavoro, in un cantiere edile. Secondo alcuni testimoni, a sparargli sarebbero stati due uomini a bordo di un Suv bianco. Una tipica esecuzione. Il caso è riportato dal quotidiano locale della città dell’estremo nord del Messico: El Diario de Juárez. Nei giornali la notizia non ha trovato posto. Le pagine di cronaca nera sono sature: con un ritmo di 68 omicidi al giorno da parte della criminalità organizzata è impossibile raccontarli tutti. I dati della Segreteria di governo sono allarmanti: 18.505 delitti “di mafia” nei primi nove mesi dell’anno, 3.400 in più rispetto all’anno scorso.
Le zone più colpite sono gli Stati di Guerrero, Colima, Baja California e Chihuahua. Un tale record di violenza è un fatto inedito perfino per il cruento Messico, dilaniato da dieci anni di conflitto tra bande criminali che, in combutta con pezzi corrotti di istituzioni, combattono fra loro e con lo Stato. Nel tremendo 2011 – quando il confronto tra i militari schierati dall’allora presidente Felipe Calderón e i narcos raggiunse l’apice –, le cifre si fermarono a una media 62 vittime quotidiane. Quello in corso rischia, dunque, di diventare l’anno più violento della storia recente del Paese. Con oltre 130mila uccisi dal 2012, il periodo dell’amministrazione del leader Enrique Peña Nieto, si configura come il più sanguinoso degli ultimi vent’anni, da quando, cioè, hanno iniziato ad essere diffusi i dati dei morti ammazzati. Eppure tale arco temporale ha coinciso con un vero e proprio boom di “investimenti per la sicurezza”.
Cioè di spese in armi. Nei sei anni di mandato – secondo l’Istituto internazionale di studi per la pace di Stoccolma (Sipri) –, il governo ha triplicato le uscite per gli armamenti: il 184% in più rispetto all’amministrazione precedente. Il Messico si è, così, trasformato nel secondo importatore di armi dell’America Latina dopo il Venezuela, superando Brasile, Colombia e Cile. La maggior parte degli acquisti del Paese si sono concentrati su armi lunghe e corte: ne sono state comprate quasi novemila per il solo esercito, per una spesa complessiva di 40 milioni di dollari. A beneficiarne sono state dodici imprese, statunitensi ed europee. Per il 2018, inoltre, l’esecutivo ha previsto di sborsare 754 milioni di dollari per rifornire Esercito e Marina. In realtà, come più volte hanno sottolineato gli esperti, un approccio esclusivamente militare è poco efficace nel contrasto al crimine organizzato. Per cui è necessaria una strategia “multidimensionale” con misure concrete contro la corruzione dilagante e l’impunità (al 98%). Nodi da sempre irrisolti. Sottolineati di recente, dal nunzio, monsignor Franco Coppola, che, dopo aver stigmatizzato la violenza, ha sottolineato: «Se la politica si fa corrompere e non combatte, non riuscirà a sconfiggere la criminalità e questa, alla fine, vincerà».
Ad alzare la voce contro la violenza, sono stati nell’ultima settimana anche i vescovi di Acapulco, monsignor Leopoldo González González, e di Chipancingo-Chilapa, monsignor Salvador Rangel Mendoza. Alle cause strutturali si aggiungono, per spiegare la recente escalation, una serie di fattori collaterali. Come la guerra all’interno del potente cartello (gruppo criminale) di Sinaloa, dopo l’arresto e l’estradizione negli Stati Uniti del boss, Joaquín El Chapo Guzmán. O l’incremento del consumo di eroina negli Usa, di cui il 93% viene dal Messico. Non a caso, l’Agenzia antidroga di Washington (Dea) ha definito le mafie del Paese vicino «la principale minaccia».