Il Messico che Barack Obama si appresta per la prima volta a visitare oggi e domani in occasione del vertice delle Americhe è, di fatto, un Paese in guerra civile. Lo scontro tra lo Stato e i cartelli del traffico di droga ha provocato lo scorso anno il numero record di 6200 vittime. E il 2009 è cominciato anche peggio, visto che secondo le proiezioni degli specialisti, il bilancio alla fine anno di quest’anno rischia di essere ancora più pesante. Nelle località dove le organizzazioni criminali operano più attivamente o hanno il loro quartier generale, come Cidad Juarez, si muore più che a Baghdad. «Ci sono dei momenti nei quali penso che questa guerra non si potrà mai vincere – dichiara José Vargas uno degli ufficiali più importanti al comando dei 45mila soldati che il presidente della Repubblica Felipe Calderon ha schierato sul campo per combattere la guerra della droga. Che aggiunge: «Noi facciamo il massimo, ma loro, i narcos, sono molti di più e continuano a crescere e moltiplicarsi».Nonostante il Messico riceva dagli States ogni anno centinaia di milioni di dollari per combattere i grandi cartelli della droga, il presidente Barack Obama è consapevole che, durante la sua prossima visita, i messicani si attendono da lui misure ancora più incisive per evitare che il Paese si trasformi in una nazione più violenta della Colombia. L’America è vista dal governo di Calderon come partner privilegiato, “una nacion muy amiga”. Ma gli Usa sono però anche considerati dai messicani i maggiori responsabili della escalation di violenza legata al narcotraffico. Il motivo è molto semplice: il 90% degli stupefacenti (in gran parte cocaina, crack e marijuhana) distribuiti dalle organizzazioni del narcotraffico messicano è destinato al mercato americano. Senza contare che anche gran parte delle armi usate dai narcotrafficanti viene dagli Stati Uniti, Paese in cui le imprese che producono armamenti costituiscono una lobby potentissima. Barack Obama, a differenza di quanto lasciava intendere il suo predecessore, sembra essere consapevole delle responsabilità del suo Paese, come dimostrano le dichiarazioni rilasciate dal Segretario di Stato Hillary Clinton. La ex first lady ha infatti ammesso, nella sua visita ufficiale in Messico lo scorso marzo, le colpe degli Stati Uniti: «La nostra insaziabile domanda di droga – ha dichiarato la Clinton senza mezzi termini, suscitando l’approvazione dell’opinione pubblica internazionale – alimenta il narcotraffico. La nostra incapacità di combattere il contrabbando di armi fa sì che poliziotti, soldati e civili messicani vadano incontro a una morte violenta. E di questo me ne dispiaccio profondamente». Alle sorprendenti parole del nuovo segretario di Stato è seguito l’annuncio delle prime misure anti-cartelli del nuovo governo Obama. Washington ha infatti determinato la creazione di un pacchetto di 700 milioni di dollari per sostenere il governo messicano nella sua lotta alla criminalità e il rafforzamento dei controlli lungo i 3.200 chilometri che dividono gli Stati Uniti dal Messico, con lo schieramento di 450 agenti federali dell’intelligence e la promessa di ispezionare il 100% delle vetture che passano da un Paese all’altro, treni inclusi. Ciò significa che il numero degli agenti Usa che opereranno alla frontiera sarà quadruplicato. Con il suo caratteristico linguaggio “politically correct” Obama ha dichiarato: «Si tratta di una svolta importante che si fonda sulla coscienza di una corresponsabilità. Causa ed effetto stanno su entrambi i lati della frontiera. E per questo – durante la mia visita – gli Stati Uniti rafforzeranno il loro impegno a lavorare insieme al Messico alla soluzione del problema».Pochi tra gli specialisti ritengono però che le misure finora adottate siano sufficienti a sortire gli effetti desiderati. I grandi cartelli del narcotraffico, eredi delle organizzazioni che negli anni Ottanta e Novanta imperavano in Colombia (i famosi cartelli di Cáli e Medellin), non sono infatti soltanto gruppi paramilitari che operano come intermediari di cocaina e droghe sintetiche. Sono cosche specializzate pure nel traffico di armi e presenti in un gran numero di altre attività, anche finanziarie, con le quali riciclano il denaro sporco. Si calcola che il fatturato dei grandi cartelli messicani (Sinaloa, Juárez, Tijuana, del Golfo e Beltran Leyva solo per citare i principali) raggiunga i 20 miliardi di dollari. E che i messicani che lavorano, direttamente o indirettamente, al servizio di queste “multinazionali” della droga siano almeno 450mila. È una realtà consolidata che vede militari, poliziotti e potenti e insospettabili politici nel libro-paga delle narco-organizzazioni. La corruzione, malattia endemica del Paese, ha coinvolto il direttore dell’Interpol messicano Ricardo Gutiérrez Vargas, finito in manette con l’accusa di essere complice del narcotraffico e persino il capo della polizia federale Gerardo Garay, indagato con l’accusa di far parte del cartello di Sinaloa.La “Drug War” come la chiamano gli americani, inizia ufficialmente nel 2006, quando l’allora neo-presidente Felipe Calderon decise che la polizia non bastava più per fermare i cartelli e metteva in campo l’esercito. Oggi i soldati schierati sul territorio sono 45.500. Eppure, il narcotraffico continua a fare proseliti e a espandersi anche fuori dal territorio nazionale. I cartelli sono presenti in ben 230 città degli Stati Uniti e secondo gli analisti sono sbarcati anche nel lontano Canada: Vancouver è stato scenario negli ultimi tempi di una serie di sparatorie riconducibili alle faide tra cosche messicane rivali. La lotta al narcotraffico del Messico, perciò, prima ancora che un generoso aiuto a un vicino in difficoltà, è, per l’Amministrazione americana, un problema di sicurezza nazionale. A pochi giorni dall’arrivo di Barack Obama, è stato arrestato Vicente Carrillo Leyva, 32 anni, tra i leader di uno dei cartelli più duri e violenti del Paese: quello di Ciudad Juarez. Era il ricercato numero uno del Messico, sulla sua testa pendeva una taglia di due milioni di dollari. La sua cattura, tuttavia, non cambierà molto le cose: quasi tutti i fondatori dei cartelli messicani sono stati o si trovano in carcere, e dal carcere hanno continuato a dare ordini e a sviluppare il loro violento business. Ma quest’ultimo arresto eccellente, se non altro, permette a Barack Obama di sbarcare a Città del Messico in un clima di maggiore speranza per il futuro.