Piantata all’uscita del Ponte internazionale El Paso Norte, l’imponente croce rosa è il cartello di benvenuto con cui Ciudad Juárez accoglie i nuovi arrivati. Al posto della scritta “Bienvenidos” – che troneggia dall’altro lato del cavalcavia e del Rio Bravo, da cui la separano cento metri e un passaporto statunitense –, c’è la frase: “Ni una más” (Non una di più). Le parole «donna ammazzata o scomparsa» restano sottintese ma facilmente intuibili. A esplicitarle bastano le centinaia di chiodi, con altrettanti nomi, che trafiggono la superficie del monumento. È stata la poetessa Susana Chávez a coniare lo slogan negli anni Novanta, quando la strage di ragazze – a volte bambine – catapultò Juárez sulla ribalta internazionale. Tra il 1993 e il 2005 – secondo i dati della principale esperta, Julia Monárrez Fragoso del Colegio de la Frontera Norte – furono massacrate 447 giovani. Preda di narcotrafficanti sadici e potenti, denunciarono attivisti per i diritti umani, esperti, legali. Così potenti – accusarono – da godere della protezione di politici e forze dell’ordine. E da restare finora impuniti.Negli anni successivi, i delitti al femminile si sono diluiti nel bagno di sangue in cui la narco-guerra ha trasformato la città. Dal 2008, l’offensiva contro la delinquenza lanciata dal presidente Felipe Calderón ha indebolito il gruppo criminale dei Carrillo Fuentes, a lungo “padrone” di Juárez. La banda di Sinaloa ha approfittato del vuoto per cercare di conquistare il controllo dell’enclave, corridoio strategico per esportare cocaina negli Usa. Nei continui scontri tra narcos rivali, militari e poliziotti federali schierati dal governo hanno perso la vita oltre 10mila persone. Uomini in maggioranza, ma anche donne. I femminicidi – assicura Gustavo De La Rosa, investigatore della Commissione diritti umani del Chihuahua – continuano. «Anzi, si fanno di anno in anno più frequenti. Insieme alle scomparse», aggiunge mentre si siede nella hall del lussuoso Hotel Lucerna di Juárez, in cui è di casa. «È uno dei pochi posti sicuri. Cerco di stare attento, anche se ci sono loro...», afferma mentre indica le due auto di scorta parcheggiate fuori. Due anni fa, De La Rosa è stato minacciato e ha subito un attentato. «È rischioso difendere i diritti umani in piena guerra», ironizza mentre si accarezza la folta barba bianca da “Babbo Natale latino”. In cinque anni sono state assassinate 688 donne: da 23 nel 2006 si è passati a oltre 300 nel 2010. Nel 2011 sono 193. Troppe o troppo poche, si potrebbe dire da punto di vista strettamente statistico. «Se li rapportiamo al totale, i femminicidi sono un decimo – continua De La Rosa –. Apparentemente pochi, dunque. In realtà, si tratta di una quota preoccupante. Perché è in costante aumento». Per il governo, questo dipenderebbe dalla “femminilizzazione del narcotraffico”, ovvero dall’entrata massiccia di donne nei gruppi criminali e dalla loro “eliminazione” da parte di gang rivali. De La Rosa è di tutt’altro parere: «Altro che “regine dei narcos”. La maggior parte delle vittime non aveva niente a che fare con la delinquenza». Perché a Juárez, allora, le donne vengono ammazzate o svaniscono nel nulla? «Per l’impunità di cui godono i carnefici. Dal 2008, meno del 2 per cento dei delitti è stato risolto. Naturale dato che 30 persone – tra investigatori e pubblici ministeri – devono occuparsi di 200 omicidi al mese. Gli assassini sanno che difficilmente pagheranno per le loro atrocità». «Le donne sono da sempre il bersaglio di violenze, dalla famiglia al resto della società», aggiunge Irma Casas Franco della Ong Casa Amiga. De La Rosa conclude con un sospiro: «Il sonno della giustizia genera mostri». I mostri: difficile riconoscerli in mezzo ai pochi passanti che si avventurano per Avenida Villa. Camminano in fretta senza guardare le infinite schiere di case diroccate, serrande abbassate e insegne “Vendesi”: vanno dritti verso la meta. Non si passeggia a Ciudad Juárez, specie in centro. Questo quadrato tra il ponte, il mercato e la cattedrale è il buco nero che ha ingoiato migliaia di donne. Alcune le ha risputate cadavere. Altre sono semplicemente svanite. Di loro restano i volti in bianco e nero catturati dalle foto fotocopiate e appese ai pali della luce, le pensiline dei bus dissestati, i segnali stradali. Sotto, il nome e l’implorazione: “Aiutateci a trovarla”. «Né io né le mie amiche passiamo mai per il centro da sole – racconta Clara (il nome è di fantasia), 18 anni –: è troppo pericoloso». Impossibile conoscere la quota esatta delle desaparecidas. I casi ufficiali, da gennaio al 30 giugno 2011, sono 45, circa 7 al mese. Il dato reale è almeno il doppio, affermano fonti giudiziarie. «Spesso le scomparse non vengono segnalate per paura, ignoranza, difficoltà burocratiche», racconta Rocío Gallegos, giornalista del
Diario di Juárez. Specie, poi, quando a sparire sono migranti venute dal Sud del Paese per lavorare nelle “maquiladoras”, le grandi fabbriche di assemblaggio americane, motore economico della frontiera. Senza famiglia, amici, conoscenze stabili, le straniere si “dileguano” in silenzio. La maggior parte, però, non va lontano. Appena dietro il centro, c’è la zona “blindata”. «Non entra nessuno: né giornalisti, né poliziotti. L’ultima volta che dei colleghi ci sono andati, abbiamo dovuto chiamare i militari per salvarli», dice Rocío. È il regno dei narcos. Lì tengono ammassate – garantiscono fonti locali che chiedono l’anonimato – migliaia di giovani-schiave, costrette a prostituirsi, a vendere droga, a volta anche a uccidere per il cartello. Tutti lo sanno a Juárez, nessuno lo dice pubblicamente. L’ultima che l’ha fatto, Malù García Andrade ha dovuto lasciare la città in seguito alle minacce. Di recente, cinque pallottole hanno ridotto in fin di vita sua madre, Norma Andrade. Prima di Malù, anche Susana Chávez aveva denunciato la tratta di donne. L’11 gennaio del 2011 il cadavere massacrato della poetessa è stato ritrovato in una discarica. Piantato sull’imponente croce rosa il suo grido, “Ni una más”, però, sopravvive. A dispetto dei narcos.