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Sudan. Meriam, «tradita» persino la sharia

Lorenzo Ascanio - Professore di Diritto musulmano e dei Paesi islamici presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e autore con Massimo Papa del libro «Shari’a», ed. il Mulino. martedì 20 maggio 2014
​La vicenda di Meriam ci ripropone ancora una volta il tema del ruolo e della forza che la sharia, il diritto islamico, oggi assume nelle legislazioni dei Paesi musulmani. Cosa rimane oggi della sharia, dei suoi precetti – sotto le più svariate forme ed interpretazioni – così come tramandati dai testi di diritto medievale? Sebbene molti Paesi islamici abbiano abbandonato la riproposizione pedissequa delle antiche regole in materia di diritto penale previste dalla sharia, a vantaggio di una modernizzazione del diritto in chiave «occidentale», ciò non è accaduto in alcuni contesti, in cui proprio il sistema dei crimini e delle pene in senso islamico è stato rivitalizzato e recuperato come strumento di «rivincita» ideologica nei confronti dell’oppressore coloniale. In altri termini, il diritto penale della sharia si è eretto (insieme con il diritto di famiglia e di statuto personale) a roccaforte dell’identità islamica come reazione all’invasione culturale ed economica del mondo occidentale, considerata corrotta e ripugnante.  Il caso del Sudan (come anche della Nigeria) è, in questo senso, emblematico; la re-islamizzazione giuridica, di ispirazione malikita, iniziata nel 1983 dal presidente Nimeiri, ha comportato in primo luogo la consacrazione, a livello costituzionale, della sharia come la fonte principale dell’ordinamento. Di pari passo, il diritto penale ha visto l’incremento di disposizioni ispirate dalla disciplina sciaraitica classica. La versione del Codice penale del 1991 contiene, infatti, numerosi istituti che si richiamano al diritto penale islamico; la contemplazione di pene capitali quali l’impiccagione, la lapidazione, il taglione, la crocefissione e la riproposizione di reati quali il consumo, la produzione e la commercializzazione di bevande alcooliche (40 frustate); il gioco d’azzardo (25 frustate), la vendita di alimenti non macellati secondo il rito musulmano (reclusione fino ad un anno), furto (taglio della mano destra all’articolazione del polso nel caso di primo furto, reclusione per un minimo di sette anni in caso di recidiva, derogando alla più crudele pena prevista dalla sharia dell’amputazione del piede opposto), reati sessuali (lapidazione a morte o 100 frustate in base allo stato di coniuge o meno del reo), reati di sangue (taglione o prezzo del sangue).I reati volti a tutelare la religione islamica sono anch’essi disciplinati secondo il tradizionale dettato shiaraitico; così, è l’articolo 126 del Codice penale, sebbene non applicabile al Sudan del Sud, che ripropone il delitto di apostasia (ridda) ossia, l’atto, il comportamento del fedele musulmano che pone in essere atti di pubblica propaganda contro l’islam o che ne dichiara attraverso parole o fatti la sua rinuncia. In tali casi, la pena prevista è quella capitale, salvo l’ipotesi di ravvedimento entro un termine determinato dal giudice.   Ma quello sudanese può dirsi un diritto pienamente votato alla sharia? È corretto affermare che la normativa sudanese sia perfettamente aderente alla sharia? O piuttosto, la sharia, nella sua immagine più rude, violenta ed arcaica, è stata oggetto di una rivisitazione finalizzata al volere del potere politico umano? Fa riflettere che, proprio innanzi ad un simile dettato normativo emerso in epoca contemporanea così forte ed univoco nel suo contenuto, il dibattito storico dei giuristi classici in tema di apostasia e soprattutto della pena da applicare, fosse, al contrario, intriso di forte dissociazioni all’interno della comunità musulmana. Il Corano non fa espressa menzione della pena capitale in caso di reato di apostasia; né tanto meno, nella Tradizione (Sunna) del Profeta Muhammad, si possono riscontrare elementi chiarificatori. Ancora, numerose dissociazioni tra scuole giuridiche sul punto rendono la materia estremamente complessa e non certamente chiara. Così, dovrebbe quantomeno far discutere che gli stessi malikiti (scuola di riferimento nella re-islamizzazione del Sudan) dibattessero circa la necessità di accertare preliminarmente con accuratezza l’appartenenza all’islam dell’apostata, al punto tale che, qualora fosse sorto un dubbio (ad esempio una conversione forzata e non volontaria all’islam) o fosse stata provata l’assenza di testimoni (elemento necessario per l’atto di conversione), in tali casi, l’applicazione della pena non avrebbe dovuto avere effetto. Il giudice stesso, secondo la maggior parte delle scuole giuridiche, era chiamato ad uno zelo particolare rispetto ad una simile incriminazione, posta l’asprezza della pena da comminare, sino all’obbligo di astenersi dall’applicare la pena capitale qualora le prove a carico del reo non fossero chiare e concordanti. I giudici che hanno dichiarato Meriam colpevole di un simile reato hanno approfondito la normativa sotto quale luce? Si sono rifatti a quali testi di fiqh (giurisprudenza islamica)? Hanno tenuto conto dei limiti e della prudenza che le scuole giuridiche hanno sempre caldeggiato nella valutazione di un simile reato?