L'odissea di Meriam sembra senza fine.
Meriam Ibrahim, cristiana condannata a morte per apostasia in Sudan (sentenza che è stata annullata nei giorni scorsi) e ora rifugiata presso l'ambasciata
statunitense di Khartoum, è vittima di una nuova procedura
giudiziaria scatenata da una denuncia da parte di persone che
affermano di essere suoi parenti.
Lo sostiene l'avvocato della donna. Secondo il legale, le persone che l'accusano, tutte di fede musulmana, sarebbero le stesse che nel 2013 la denunciarono
per apostasia. "Credo che la corte respingerà" questa nuova denuncia, aggiunge l'avvocato di Meriam.
Meriam (questo il nome da sposata), il cui vero nome è Abrar
Allahi Mohammed Abdallah, nata da padre musulmano, 27 anni, è
stata condannata a morte il 15 maggio da un tribunale
criminale sotto la legge islamica, che vieta le conversioni, per
aver sposato un cristiano.
Una sentenza che ha provocato una grande mobilitazione internazionale, che ha visto protagonista anche Avvenire.
Già madre di un bambino di 20 mesi, è stata anche condannata a 100 frustate per
"adulterio", perché secondo l'interpretazione sudanese della
sharia, qualsiasi unione tra un musulmano e un non musulmano è
considerata "adulterio". Liberata il 23 giugno poco dopo
l'annullamento della condanna, Meriam è stata fermata poi
all'aeroporto, dove si accingeva a volare negli Stati Uniti con
il marito, che è anche cittadino americano.
È stata poi rilasciata di nuovo sotto controllo di un garante, ma su di lei
pende ancora l'accusa di aver presentato un documento
"straniero" alla polizia di frontiera sudanese, un fatto
considerato "illegale". In realtà il suo documento, rilasciato dal Sud Sudan, Paese originario del marito, è assolutamente regolare in quanto emesso dalle autorità di Juba.
Secondo alcuni attivisti cristiani, un uomo che afferma di
essere suo fratello ha affermato che la sua famiglia l'avrebbe
uccisa se fosse stata assolta dall'accusa di apostasia. Anche
per questo è ora rifugiata presso l'ambasciata Usa.