Cristiana perseguitata. Meriam incatenata in cella, sta male
Non solo è stata condannata a morte per non aver accettato di abiurare la sua fede, lei cristiana ortodossa in un Paese, il Sudan, in cui il sistema giudiziario è basato sulla legge coranica. Di più: nel carcere di Khartum in cui è detenuta, Meriam Yahia Ibrahim Ishag è trattenuta con catene alle caviglie. Una condizione ancor più drammatica per una donna incinta all’ottavo mese. Le sue gambe sono gonfie e le è anche stata negata la possibilità di una visita medica. A constatare le sue difficili condizioni è stato il marito Daniel Wani, arrivato lunedì dagli Stati Uniti, secondo quanto ha riferito Tina Ramirez, responsabile del gruppo statunitense per i diritti umani Hardwired. In carcere con Meriam resta anche il figlio di 20 mesi, Martin, che si è già ammalato più volte a causa delle condizioni malsane della prigione. Al marito di Meriam è stato anche negato l’affidamento del figlio perché, essendo ritenuto non valido il matrimonio tra un cristiano e una musulmana (per il tribunale che l’ha condannata Meriam è musulmana in quanto questa era la religione del padre), il bambino è considerato illegittimo. Secondo Daniel, in carcere la moglie ha subito maltrattamenti fisici ed emotivi soprattutto da una delle guardie. Alcuni studiosi della religione islamica l’avrebbero esortata a «tornare alla religione del padre», ma Meriam ha rifiutato. A quel punto una detenuta, islamica, avrebbe incitato altre detenute a renderle la vita difficile in prigione. A favore di Meriam continua, però, la mobilitazione di numerose associazioni a difesa dei diritti umani.
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