“Esistono ancora ragionevoli possibilità di revisione” della sentenza, basate sull’azione degli avvocati della difesa di Meriam". Nero su bianco l’ambasciata sudanese in Italia tende a ridimensionare la condanna a morte nei confronti della 27enne cristiana Meriam Yahia Ibrahim Ishag, in carcere a Khartum dopo una sentenza di colpevolezza per apostasia e adulterio.In una nota, di cui
Avvenire ha avuto copia attraverso l'associazione "Italians for Darfur",
l’ambasciatrice Amira Daoud Hassan Gornass sottolinea che, in accordo con le leggi sudanesi, il verdetto della corte di prima istanza, basatasi sulla sharia, “sarà reso esecutivo solo dopo che saranno esaurite tutte le possibilità di appello disponibili”. Ma sottolinea anche che“il sistema giudiziario è indipendente da qualsiasi forma di influenza o di interferenza”.“Il caso di Meriam – sottolinea ad
Avvenire monsignor Macram Max Gassis, vescovo emerito della diocesi sudanese di El Obeid - dimostra che non c’è libertà di religione in Sudan, a dispetto di ciò che dice il regime e nonostante essa sia insita nella Costituzione".Le dure leggi coraniche, certo. Ma ci sono anche ragioni umane, troppo umane, dietro l’inchiesta che ha portato nei mesi scorsi all’arresto di Meriam. La novità è filtrata attraverso
Justice Centre Sudan, organizzazione non profit che si sta facendo carico delle spese legali di Meriam. Un portavoce ha sottolineato: “Crediamo che i familiari abbiano presentato la denuncia perché vogliono prendere il controllo dei suoi affari. Se Meriam resta in prigione potrebbe perdere tutto e i parenti sarebbero i primi a beneficiarne”. Stessa cosa, secondo l’organizzazione, accadrebbe se Meriam fosse forzata a lasciare il Sudan.