Mondo

Analisi. Fabbrica Cina: più robot, meno operai

Luca Miele venerdì 11 dicembre 2015
​È stata l’arma potentissima che ha permesso alla Cina un balzo senza precedenti nella storia. I numeri – da capogiro – non lasciano dubbi: Pechino ha inanellato una crescita del Pil in media del dieci per cento per 30 anni, ha sottratto 500 milioni di persone dalla morsa della povertà, ha posizionato oltre 60 aziende nella lista delle più ricche al mondo. Quell’arma – una massa sconfinata di lavoratori a basso costo che ha guadagnato al Paese il titolo di "fabbrica del mondo" – ha catapultato un gigante ferito, azzoppato, al vertice dell’economia mondiale, seconda solo agli Stati Uniti. Ebbene, ora quell’arma sta evaporando sotto i colpi di una crisi (di una catastrofe?) demografica, anche questa senza precedenti, che sta spingendo il Dragone a un radicale ripensamento del suo modello produttivo, non più consegnabile alla sola risorsa dello sfruttamento intensivo della manodopera. Ma non basta: un altro fattore rischia di affondare il sistema Cina: i salari. Che aumentano, rendendo meno appetibile il Dragone per le imprese straniere rispetto ai combattivi Paesi vicini. Secondo i dati forniti da Bloomberg, un operaio cinese guadagna poco meno di 500 dollari al mese, in Thailandia meno di 350, in Cambogia 75 dollari. Si volatilizzano gli uomini e le braccia iniziano a costare "troppo"? Pechino allora ha deciso di cambiare strategia, puntando tutto sui robot. Un dato su tutti: la Cina ha superato il Giappone, diventando il più grande mercato al mondo per i robot industriali.
In nessuna parte del mondo, il cambiamento demografico sarà tanto violento e repentino. Tanto da far prevedere che, nei prossimi quarant’anni, il numero dei giovani cinesi di età compresa tra i 20 e i 34 anni si contrarrà quasi del 40%. Negli stessi anni l’India registrerà, invece, una crescita dello stesso segmento di popolazione del 35%, e in Africa – anche se le proiezioni sono più incerte – addirittura segnerà un incredibile più 160%. È tutta la società cinese a essere investita dallo tsumani demografico, risultato anche di scelte sciagurate, come quella del figlio unico, adottato per contenere – a un costo altissimo in termini umani – la crescita demografica.
Nel 1950 ogni famiglia era composta in media da 5,3 persone. Nel 1990 si era passati a 3,96, a 3,2 nel 2012. Si stima che 160 milioni di famiglie – circa il 40% del totale – siano oggi composte da non più di due persone. Nel 2000 la percentuale era "solo" del 25%. In un decennio, il numero di nuclei "uni-personali" è raddoppiato, quello delle famiglie composte da due persone è schizzato del 68 per cento. Nelle aree urbane il 45,4 per cento dei residenti vive solo. Di pari passo procede l’altro fenomeno macroscopico: l’invecchiamento (vertiginoso) della popolazione. In Cina si contano 88 milioni di famiglie composte da persone con più di 65 anni, un quinto del totale. Si calcola che gli anziani saranno 210 milioni nel 2030, mentre nel 2050 rappresenteranno circa un quarto della intera popolazione. Il cambiamento non poteva non investire il fattore chiave dell’ascesa economica della Cina: la popolazione in età lavorativa. Che è diminuita, per la prima volta, nel 2012 e una seconda l’anno successivo. Secondo l’Ufficio nazionale di statistica cinese, nel Paese la popolazione in età lavorativa – di età compresa tra i 15 e i 59 anni – è scesa di oltre due milioni di unità. Essa oggi rappresenta il 67,6 per cento della popolazione complessiva – in calo di 1,6 punti percentuali rispetto all’anno precedente. E l’emorragia continuerà. Secondo una stima delle Nazioni Unite, la Cina perderà 67 milioni di lavoratori entro il 2030. Le conseguenze del terremoto demografico che ha investito il Paese rischiano, per gli esperti, di essere di portata epocale: sociali – perché toccano la struttura della famiglia, sovvertendo equilibri millenari – ed economiche – investendo il sistema pensionistico e sanitario, azzoppando la "macchina" del risparmio –, con Pechino destinata a dover rinunciare al ruolo di "fabbrica del mondo".
Il lungo braccio meccanico avanza, "indugia", testa. I movimenti sono rapidi e, come ci si aspetta da un robot dell’ultima generazione, continui e precisi. Infallibili. Siamo nella fabbrica di elettrodomestici della Midea Group nella città di Foshan, nella provincia meridionale di Guangdong, vero cuore pulsante dell’industria manifatturiera cinese. Il controllo sulla linea di montaggio negli impianti del gruppo, fino a qualche anno fa, era affidato a 14 addetti in carne e ossa. Oggi al loro posto lavorano quattro robot. Uno dei manager dell’azienda ha spiegato al periodico <+CORSIVOIDEE_BAND>Beijing Review<+TONDOIDEE_BAND> che alle macchine sarà affidata l’intera supervisione relativa al controllo della qualità della produzione. Midea ha investito 800 milioni di yuan, nell’arco temporale che va dal 2011 allo scorso anno, per l’installazione di sistemi automatizzati. Sono 800 i robot già attivi. La società prevede di spendere fino a 900 milioni di yuan per aggiungere altri 600 robot quest’anno. L’automazione spinta significa soprattutto taglio di manodopera. Circa 6mila i posti di lavoro saltati nel 2015 (su un totale di 30mila lavoratori), altri 4mila spariranno entro il 2018. Non si tratta di un caso isolato. Sono migliaia le aziende che stanno seguendo la stessa strada. Foxconn ha istallato 10mila robot. Shenzhen Evenwin Precision Technology Co, impresa che produce componenti per telefoni cellulari, ha recentemente annunciato di voler ridurre i propri dipendenti del 90%. Sostituendoli, neanche a dirlo, con i robot.
L’International Federation of Robotics ha fornito i dati sulla crescita inarrestabile di questo "esercito": sono 200mila gli "esemplari" già attivi nelle fabbriche cinesi. Pechino è diventata così il più grande mercato del mondo per i robot industriali. Gli "esemplari" venduti nel gigante asiatico, nel 2013, sono stati 36.560 (20 per cento dell’intero mercato mondiale) e 57.096 nel 2014 (più 56% rispetto all’anno precedente). I competitori mondiali seguono a fatica la Cina: 29.300 i robot industriali (+17%) venduti in Giappone, 26.200 negli Stati Uniti (+11%). Ma a Pechino non bastano questi risultati. E la passione tutta cinese per la programmazione lo conferma. Il ministro dell’Industria ha fissato l’obiettivo di schierare nelle fabbriche del Paese 800mila robot entro il 2020, prevedendo che il settore produrrà ricchezza per 100 miliardi di yuan (15,7 miliardi di dollari). Siamo insomma dinanzi all’ultima ambizione, all’estrema frontiera della rivoluzione cinese: far dimenticare la tradizionale "paccottiglia", sostituendola con gli scintillanti, iper-tecnologici robot "made in China".